L'Editoriale
Lunedì 09 Luglio 2018
Il Grande malato
e la diarchia
Tutti i partiti si stanno attrezzando in vista delle elezioni europee del prossimo maggio, dove i sovranisti tenteranno lo sfondamento secondo il parametro italiano: per la prima volta non è in gioco la semplice alternanza tra formazioni europeiste, ma il futuro stesso della costruzione comunitaria, fin qui retta dalla competizione-collaborazione tra la maggioranza di centrodestra (gli europopolari a guida Merkel) e i socialisti. La Lega, lo s’è visto a Pontida, intende guidare il cartello dei populisti che potrebbe saldarsi con i popolari, qualora agli ungheresi di Orban, agli austriaci e ai bavaresi riuscisse il progetto di spostare a destra il Ppe con l’ingresso nel club della Polonia, Paese sotto osservazione per infrazione allo Stato di diritto.
Per fare questo hanno bisogno di sconfiggere, o comunque neutralizzare, la cancelliera: l’intento, al vertice sull’immigrazione, non è riuscito, ma ci potranno essere altre occasioni per gli euroscettici, tanto più che la Merkel appare ai minimi termini, fortemente indebolita e costretta ad assecondare gli oltranzisti. In questo contesto la scelta berlusconiana di nominare Tajani vice presidente di Forza Italia supera i confini interni: con la scelta del presidente dell’europarlamento, gli azzurri, pur scontando le ambiguità dei rapporti con la Lega, si collocano sulla scia del tradizionale europeismo.
A queste grandi manovre il Pd si presenta esausto, con l’ennesima tregua di una guerra di trincea dentro il partito affidata a Martina, neo segretario a tempo, il traghettatore che dovrà portare i dem alle primarie di febbraio. Ricomporre, cioè, le parti di un insieme che non è ancora una comunità politica: appare piuttosto il «grande malato» della politica italiana, tuttora un semilavorato in cui i due universi del partito hanno interrotto le linee di comunicazione. L’immagine dell’assemblea nazionale trasmette una frattura sentimentale e umana, ancor prima che politica: la prima fila, quella dell’establishment, che accoglie Renzi nel gelo e, dietro, il popolo tifoso con le sue passioni, a volte contro l’ex leader, più spesso a favore. Renzi risulta ingombrante e divisivo, ma il paradosso è che è l’unico leader su piazza, uno dei pochi ad avere le idee chiare sulla deriva di Lega e 5 Stelle. S’è discusso molto sui limiti dell’uomo, sui deficit caratteriali, poco però sul significato della svolta politica di una sinistra riformista, che ha avuto alle spalle una classe dirigente di governo ma non di partito. Per un Pd che non ha risolto il vizio d’origine, quello dell’identità, e con una contaminazione culturale riuscita solo parzialmente, il pericolo è quello di gettare il bambino con l’acqua sporca, di tornare indietro, al fortino identitario. Un partito che pure ha espresso personalità come Gentiloni, Padoan e Minniti, e riforme di tutto rispetto, oggi sembra intimidito se non tramortito dinanzi al consenso che riceve la tolleranza zero della Lega verso gli immigrati e all’effetto spiazzamento delle politiche redistributive dei grillini. Un’inerzia culturale soprattutto nei confronti dei 5 Stelle, quasi la subalternità di chi non crede più nel proprio progetto riformista e considera il sodalizio di Di Maio non una costola leghista, piuttosto un’evoluzione della sinistra da ricondurre alla casa madre. Augurandosi, senza dirlo, che poi possano dividersi o andare a sbattere. Può succedere, aspettando peraltro la legge di bilancio, e del resto le crepe nella maggioranza ci sono. Ma finora il patto di governo tiene e i due contraenti possono interpretare tutte le parti in commedia: le contraddizioni, fino a quando non superano una certa soglia, sono a costo zero. La diarchia Salvini-Di Maio, nonostante tutto, funziona: il patto di reciproca non aggressione prevede screzi e smagliature, non la rottura. In questo modo Di Maio, pur con i mal di pancia dei suoi, può cercare di arginare il protagonismo del leghista, non essere giustizialista con gli amici (Lega), spostarsi a sinistra sui temi del lavoro ma dando una mano sulla flat tax, comprendere le ragioni del poliziotto cattivo sull’immigrazione. Il movimento si sottrae al principio di coerenza proprio per la sua pretesa di rappresentare tutto l’arco parlamentare.
La Lega nel frattempo, che i sondaggi danno in sorpasso sui 5 Stelle, ha aggiustato lo squilibrio di partenza ed è impegnata a svuotare il consenso a Fi piuttosto che a competere con gli alleati di governo: con la politica dei due forni, incassa l’alleanza sul territorio con Berlusconi e quella con i grillini a Palazzo Chigi. In tutto questo il Pd, tra livore e nomenclatura, non affronta la crisi della funzione e del ruolo di una sinistra di governo, come se l’idea di ricostruire il partito potesse nascere non dalla convinzione delle proprie idee, ma dallo schianto altrui o da fidanzamenti con i pretesi populisti di sinistra che, per l’involuzione del quadro politico, apparirebbero contro natura.
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