Il governo
e il rischio appigli

Giuseppe Conte, nel lunghissimo discorso programmatico pronunciato di fronte alla Camera, ha dovuto recitare due parti nella stessa commedia: da una parte doveva dare il senso di una discontinuità di governo dall’altra sapeva di rappresentare egli stesso, fisicamente, la continuità, essendo lui lo stesso presidente del Consiglio grillino prima di un governo coi leghisti e poi con i democratici. Obiettivamente, non era un compito facile. Tanto è vero che per svolgerlo, l’avvocato Conte ha dovuto impiegare un’ora e un quarto, un piccolo record nella storia parlamentare, volando alto come si dice quando a volar basso si rischia di essere abbattuti dalla contraerea.

Esemplare il caso dei due decreti sicurezza Salvini (in odore di incostituzionalità) che Conte firmò in era giallo-verde e che ora è chiamato a ripudiare: come fare per cavarsi d’impaccio? Semplice: dichiarando salomonicamente di voler cancellare il secondo decreto - su cui Mattarella aveva espresso per iscritto le sue riserve - e difendendo solo il primo che aveva suscitato meno polemiche.

Un esercizio di equilibrismo che ha dato da subito il senso della fatica che il governo appena nato dovrà fare nei prossimi mesi. Come quando si discuterà delle concessioni autostradali alla società della famiglia Benetton: i grillini vogliono che quelle concessioni vengano revocate, i democratici no (anche perché ci sarebbero maxi penali da pagare), e così la parola magica è «revisione»: si procederà ad una «revisione» dei contratti e poi si vedrà… Quanto al taglio dei parlamentari (sostenuto dal M5S e osteggiato fin qui dal Pd) si varerà ma solo quando sarà stato inserito in un quadro più generale di riforme, a cominciare da quella elettorale: insomma, un poco più in là e anche in questo caso, si vedrà.

Si è dunque capito perfettamente dal discorso di Conte quel che si sapeva già: il matrimonio di interesse tra Pd e M5S è avvenuto dichiaratamente con lo scopo primario di impedire alla Lega di vincere le elezioni anticipate e conseguentemente di eleggere il successore di Mattarella al Quirinale. Questa necessità è stata affrontata e risolta con la nascita del governo ma ad un prezzo molto alto. Il primo è sicuramente, come abbiamo detto, il rischio che le tante incompatibilità di vedute conducano in breve il governo ad uno stato di impotenza identico a quello che verificò negli ultimi sei mesi dell’era giallo-verde.

Il secondo è, per dir così, un prezzo «reputazionale» che democratici e grillini dovranno pagare ai loro stessi elettorati che hanno molto mal digerito l’accordo tra due acerrimi nemici. Anche perché, come si è visto durante la rumorosa manifestazione di protesta in piazza Montecitorio convocata da Fratelli d’Italia e dalla Lega per reclamare le elezioni, Salvini e Meloni passeranno tutto il loro tempo a bombardare il governo con una campagna durissima: «poltronari» e «ladri» sono gli epiteti ripetibili che si sono sentiti ieri dai megafoni della destra. E questo apre la questione che sta già appassionando giornalisti, sondaggisti e politologi: l’opposizione sgonfierà il fenomeno Salvini o, al contrario, ne aumenterà il consenso? Per il momento la Lega, dopo l’errore tattico di Salvini, ha perso dei punti nei sondaggi ed è arretrata rispetto al risultato delle europee, ma si mantiene saldamente al di sopra del 30 per cento, una percentuale che Pd e M5S guardano da molto lontano. Dovranno dunque stare attenti, i due partiti «alleati» (o forse è meglio dire coabitanti) a non offrire all’opposizione facili appigli polemici, come sarebbe se si volesse ridimensionare «quota 100» per trovare le risorse necessarie a disinnescare l’aumento automatico dell’Iva.

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