L'Editoriale
Giovedì 25 Maggio 2017
Il futuro rubato
dia forza al bene
A volte non si sa bene da che parte girarsi. Si vorrebbe guardare altrove, si vorrebbe non pensarci. Certo, è sbagliato, lo sappiamo tutti, ma talvolta non si riesce proprio a comportarsi diversamente. Si sogna l’indifferenza, la superficialità, ma lo spettacolo è talmente duro da non poter essere vissuto come uno spettacolo. È uno dei tanti effetti della globalizzazione; da una parte si è come costretti a prendere coscienza di ciò che accade, spesso a migliaia di chilometri da dove si abita e da dove si ha il proprio mondo, e così si resta bloccati davanti allo schermo della tv; d’altra parte, proprio i continui messaggi che ci raggiungono a proposito di questa o di quell’altra tragedia, facilitano quell’assuefazione che ci spinge con insistenza verso l’indifferenza.
Eppure di fronte alla violenza subita dai bambini non si riesce a restare, magari come si vorrebbe, indifferenti. E così non si sa bene da che parte girarsi. A Nord ci sono bambini che muoiono durante un concerto; a Sud ci sono bambini che muoiono in mare vicino alle coste della Libia. Non ci si vorrebbe pensare e per questo ci si convince che in simili casi bisogna ad ogni costo evitare ogni retorica. Bisogna sapere distinguere, diciamo, e di conseguenza bisogna fermarsi a riflettere senza farsi prendere dall’emozione. È diverso morire per un attentato e morire in mare; non ci sono dubbi. Dunque conviene non insistere, conviene lasciar perdere: per evitare ogni retorica conviene passare subito a qualche altro argomento.
Eppure di fronte alla violenza subita dai bambini non si riesce a lasciar perdere. Perché? Si parla dell’innocenza, dello scandalo del male nei confronti degli innocenti. È il famoso argomento su cui l’Ivan dostoevskijano fonda il suo rifiuto di Dio: il male contro i bambini impedisce di credere in qualsiasi provvidenza. L’obiezione è estremamente seria anche se, a ben vedere, molte altre vittime della violenza quotidiana sono innocenti e non sempre sono bambini. Evitiamo, per l’appunto, ogni retorica: non mettiamoci a fare una classifica tra le vittime della violenza, non trasformiamo i bambini in una sorta di facile trastullo intorno al quale far girare la nostra buona ma soprattutto cattiva coscienza.
Eppure la morte dei bambini, soprattutto quella violenta, non smette di interrogarci. Perché? Forse perché interrompe quel possibile che caratterizza così profondamente la vita dell’uomo. Non si può fare a meno di pensare a quante realtà quei bambini, quelli del Nord e quelli del Sud, avrebbero potuto avere accesso, a quanti sogni avrebbero potuto dare corpo, a quante parole, magari nuove o nuovissime, avrebbero potuto dare voce; magari durante quel concerto due giovani si erano dati il primo bacio, si erano fatti una prima promessa, sicuri di continuare a vedersi dopo il concerto; magari quell’altro giovane, mentre era in gommone, aveva iniziato a pensare e progettare il proprio futuro, immaginando a come sarebbe stato l’incontro con il fratello che lo attendeva al di là del mare. Tutto quel possibile non sarà mai più possibile, e di conseguenza non solo il loro possibile non sarà mai più possibile, ma anche il nostro possibile, quello che ci resta, quello che è ancora possibile, senza di loro non sarà più lo stesso possibile, sarà un po’ meno possibile, un possibile meno ricco di possibilità.
«Avrebbero potuto...»: che forma verbale terribile, soprattutto quando è pensata in relazione alla morte. Ma anche che sorprendente sollecitazione per il nostro possibile. In queste circostanze da tutte le parti si sente ripetere che non dobbiamo cedere alla paura e non dobbiamo rinunciare al nostro stile di vita; anche questo è vero, eppure a me sembra che queste sciagure ci spingano soprattutto a non perdere tempo nel compiere il bene. Di fronte alla tragedia del possibile che avrebbe potuto essere rispondiamo con il presente del bene realizzato. Ciò che qui è in gioco non è uno stile di vita ma la realizzazione del bene. Raccogliamo quel primo bacio e speriamo di non dover anche noi riconoscere che «avrei potuto ma poi...».
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