L'Editoriale / Hinterland
Giovedì 08 Settembre 2016
Il futuro di Orio
tra Est e Ovest
L’appuntamento è previsto in tarda mattinata, ma da discutere non ci saranno i faldoni legati alla normale amministrazione. Al tavolo di lavoro siederanno i soci bergamaschi della Sacbo, la società che gestisce l’aeroporto di Bergamo, e il nodo da sciogliere non sarà tecnico ma squisitamente politico: cosa fare in vista della scadenza - il prossimo 31 ottobre - della lettera di intenti con cui Sacbo e Sea (la società di gestione degli aeroporti milanesi) hanno ipotizzato un’integrazione societaria che darebbe vita ad una società di gestione aeroportuale di dimensioni europee? Prorogarla, proseguendo così la strada tracciata da questa intesa il 27 novembre 2015 e rinnovata nel marzo scorso, oppure lasciarla cadere e ritenersi dunque liberi di perseguire autonomamente nuove ipotesi di sviluppo?
Non essendo l’unica parte in causa, è chiaro che la risposta non può essere data solamente da Sacbo, anche perché - contrariamente alle attese - l’elezione a sindaco di Milano di Giuseppe Sala (Palazzo Marino è il principale azionista di Sea) non sembrerebbe aver dato lo slancio ipotizzato prima della consultazione elettorale milanese nel caso di vittoria della sinistra. Nulla di ufficiale, ma nelle ultime settimane i «sentimenti» milanesi verso la fusione con i bergamaschi si sarebbero un po’ raffreddati. Il meno entusiasta di tutti sembrerebbe il neo assessore al Bilancio della Giunta Sala, il bocconiano Roberto Tasca che - sebbene i cda di Sacbo e Sea, riuniti in seduta congiunta e all’unanimità, abbiano giudicato positivamente l’ipotesi di integrazione societaria predisposta dall’ex rettore dell’Università di Bergamo, Stefano Paleari - avrebbe da ridire in particolare sul valore della quota attribuita a Sacbo (attorno al 35% della «newco» che nascerebbe dalla fusione delle due società) a fronte di quella stabilita per Sea (il restante 65%). Tasca - che vorrebbe ridurre il peso della quota bergamasca - non sembrerebbe nemmeno soddisfatto dell’attuale assetto di governo di Sea, che oggi vede a capo della Spa milanese l’ex direttore generale di Intesa San Paolo, Pietro Modiano, al quale si vorrebbe ora affiancare la figura di un amministratore delegato. In tutto questo, Sala «nicchierebbe» un po’, tanto da aver dedicato agli azionisti bergamaschi davvero pochissimo tempo da quando è stato eletto ad oggi.
Se le cose stessero realmente così, molto di quanto ipotizzato nei mesi scorsi sul futuro dello scalo bergamasco verrebbe messo in discussione. Al di là dei soldi che finirebbero nelle casse bergamasche, il tema vero resta infatti (da sempre) l’autonomia gestionale riservata a Sacbo nel caso l’integrazione andasse in porto, autonomia che se le quote Sacbo scendessero al di sotto del 32 o del 35% della «newco» (come sembra vorrebbe Tasca), salterebbe automaticamente, perché i soci bergamaschi non avrebbero più peso nelle scelte «straordinarie» della nuova società, ma solamente in quelle ordinarie, cioè di nessun valore strategico. Un quadro siffatto - oggi - potrebbe persino convincere il professor Paleari che la sua proposta pensata per integrare Sea e Sacbo sia a questo punto superata.
Cosa fare dunque? Lasciar cadere la lettera d’intenti, a fronte di un nulla di fatto registrato fino ad oggi, e ripensare il futuro di Orio in altro modo, o rinnovare l’impegno con Sea e vedere cosa succederà nei prossimi mesi, tenendo anche presente che il cda di Sacbo scadrà la prossima primavera? Scelta non facile, a meno che si continui ad essere convinti che la fusione con Sea sia l’unica strada in grado di assicurare un futuro al nostro scalo.In questo caso, la discussione finirebbe qui. Ma è davvero così? O, meglio, è davvero ancora così? Da un anno in qua non è cambiato proprio nulla?
Per la verità alcune cosette non sono più identiche a quelle di prima, a cominciare dal «patto di sindacato» degli azionisti bergamaschi, composto da Ubi Banca (17,90%), Comune di Bergamo (13,84%), Camera di Commercio di Bergamo (13,25%), Provincia di Bergamo (13,20%) Banco Popolare (6,96%), Italcementi (3,27%), Confindustria Bergamo (0,59%) e Aeroclub Taramelli (0,01%). Di Sea, invece, il restante 30,98% delle quote societarie. Oggi lo scenario interno è un pochino differente. A capo del consiglio di gestione di Ubi (ormai non più - o non solo - a traino bergamasco dopo la trasformazione da «Popolare» in «Spa») c’è Letizia Moratti, ex sindaco di Milano... Tempi duri anche per la Camera di Commercio, alle prese con un dimagrimento voluto dalla riforma degli enti camerali decisa dal governo. Da luglio, Italcementi parla tedesco, dopo l’acquisizione da parte di HeidelbergCement, mentre la Provincia è destinata a scomparire nei prossimi mesi. Da tempo, infine, il Credito Bergamasco è stato incorporato dal veronese Banco Popolare. Cose non da poco in equilibri societari così delicati.
Certo è che se deciderà di lasciar cadere la lettera d’intenti, Sacbo dovrà pensare ad una nuova soluzione di sviluppo. La sua importanza strategica per il sistema aeroportuale del Nord Italia (e per l’economia bergamasca, visto che rappresenta il 9% del Pil di casa nostra) è tale da rendere impossibile l’idea di continuare ad andare avanti da soli. Orio si deve sviluppare, ma non potendolo più fare qui (spazi non ce ne sono più, senza contare le questioni ambientali) deve guardare altrove. Allo scalo di Bologna? Ad alcuni aeroporti dell’Est europeo? Forse, ma saremmo a livelli di puro investimento, nulla a che vedere con una reale politica di sviluppo.
Game over? Gioco finito? Forse, ma giocare non costa nulla ed è un po’ come sognare... Perché allora non girare il tabellone e provare a far correre le pedine ancora verso Est? In fondo Montichiari è ancora lì, mica si è spostato, e tutte le cose - persino le beghe a suon di carte bollate - non sono «per sempre». A fine agosto il «Corriere di Verona» ha dato conto di una serie di pesanti critiche piovute - proprio da Brescia - sulla Save, la società di gestione degli aeroporti di Venezia, Verona e Montichiari, non solo per la gestione dell’aeroporto scaligero, ma anche per quello bresciano, che «avrebbe chiuso il 2015 con un -26% per il settore cargo e un -43% per quello passeggeri, mentre il primo semestre del 2016 avrebbe fatto registrare un -22% sui cargo e appena 6.400 passeggeri in transito dallo scalo». Se a questo aggiungiamo che l’assegnazione della concessione per la gestione del «D’Annunzio» (lo scalo di Montichiari) necessita ancora di un regolare bando d’asta (la questione era stata stoppata prima che finisse alla Corte di giustizia europea), ecco ritrovare lo smalto necessario per provare a guardare ancora verso Montichiari. Tutti insieme e compatti. Un sogno ormai vecchio e finito nel cassetto? Forse, ma spesso - per trovare qualcosa di nuovo - bisogna tornare all’antico.
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