Il futuro del lavoro
passa per le città

Il futuro del lavoro passa per le città. In questa affermazione può essere riassunto il concetto chiave sviluppato e approfondito nel convegno internazionale «Nel cuore della nuova “Grande Trasformazione” del lavoro: una questione di sostenibilità» organizzato nei giorni scorsi dalla Università di Bergamo e Adapt, l’associazione di studi sul lavoro fondata dal professor Marco Biagi. Tre giornate in cui imprese, ricercatori, dottorandi e docenti di tutto il mondo si sono confrontati sulle sfide che il cambiamento in atto nei mercati del lavoro lancia quotidianamente.

E sembra proprio la città lo snodo intorno al quale la grande rivoluzione tecnologica e demografica in corso si potrà dipanare. Infatti ci troviamo di fronte a una radicale evoluzione strutturale del sistema delle imprese, che stanno mutando profondamente e rapidamente natura e fisionomia: da organizzazioni economiche verticistiche e chiuse, gestite secondo logiche giuridiche di comando e controllo in funzione della mera produzione e/o scambio di beni e servizi, a vere e proprie piattaforme di cooperazione aperte che operano in logiche di rete sul territorio, in un mercato oramai globale, dando luogo allo sviluppo di partenariati e distretti dell’innovazione e della conoscenza che sono allo stato di incerta qualificazione giuridica.

Per dar vita a tali processi le imprese non bastano più a loro stesse e necessitano di un dialogo costante e aperto con le scuole e le università, i centri di ricerca pubblici e privati, le istituzioni locali in grado di fornire loro infrastrutture e tutti gli altri attori che possono concorrere alla creazione di un valore che oggi è sempre più frutto di collaborazione e condivisione. In questa logica di economia reticolare le città acquistano un ruolo fondamentale come hub della conoscenza nei quali le imprese possono essere immerse in un ecosistema che fornisce gli stimoli e le competenze necessarie. È nella capacità o meno di attrarre flussi di competenze professionali, talenti, innovatori e anche di masse critiche di tecnologia e investimenti che si giocherà il futuro delle aree urbane che potranno o rifiorire o svuotarsi lentamente.

In tali contesti produttivi, animati da figure professionali ibride, a metà tra la ricerca scientifica e la gestione del cambiamento nei processi produttivi ed organizzativi, anche l’attività lavorativa vera e propria si svolge in una modalità simile a quelle di un processo circolare di formazione e di ricerca finalizzato ad «imparare ad apprendere» secondo una sequenza di lavoro produttivo fatta di studio, innovazione, progettazione e sviluppo. Cambia quindi il lavoro, sempre più caratterizzato da autonomia e responsabilità, in processi produttivi in cui la centralità delle preferenze del consumatore impone modelli flessibili, che possano e sappiano adattarsi rapidamente riducendo costi e sprechi. Questo processo non è esente da rischi: pensiamo per esempio al destino di quei lavoratori maturi espulsi contro la loro volontà dal mercato del lavoro e che hanno la necessità di ricollocarsi senza però possedere le adeguate competenze, o alla crescente età anagrafica media della popolazione lavorativa data dal calo demografico e dal miglioramento delle condizioni di vita, che impone come ripensare lavori che potranno vedere impiegate persone in età avanzata, o ancora a come gestire gli imponenti flussi migratori o prevenire i rischi ambientali a fronte di ulteriori processi di urbanizzazione e del sempre più marcato cambiamento climatico. Sono queste le sfide riassumibili nel concetto di sostenibilità del lavoro, e proprio la città ha, e deve sviluppare, gli strumenti per raggiungerla. A partire dallo sviluppo e diffusione di politiche che governino flussi migratori oggi disordinati, incentivino la creazione di nuovi lavori (tra i quali i cosiddetti lavori verdi), promuovano forme di welfare anche territoriale che tengano conto dell’esigenza di inclusione e un invecchiamento attivo, fino a un sistema moderno di politiche attive del lavoro che accompagnino innovazioni tecnologiche repentine nel quale la realtà urbana può essere una rete che fa incontrare domanda e offerta di lavoro mediante virtuosi processi di riqualificazione professionale e di raccordo o anche integrazione tra scuola, università, impresa.

Provocazioni che sanno di visioni futuristiche ma che, in realtà, descrivono il presente, e che non possono che interrogare anche Bergamo, il suo tessuto produttivo, il suo mondo universitario, le famiglie e tutta la società civile. Non è un caso che il convegno promosso dalla Università di Bergamo e da Adapt si sia tenuto in un luogo della grande tradizione italiana come il prestigioso complesso monumentale di Sant’Agostino che ha accolto a Bergamo esperti internazionali di oltre 70 Paesi ammirati dalla bellezza della nostra città. Per affrontare le sfide del futuro, che oggi fanno paura e che prospettano scenari da crescita senza lavoro, può infatti essere utile ricordare l’insegnamento di Sant’Agostino (Confessioni, XI, 20. 26) riportato sul sito del rettorato dell’Ateneo di Bergamo: «Il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa». Convegni come questo possono essere utili perché fissano i valori della tradizione contribuendo al tempo stesso a farli evolvere e a costruire nel presente una visione del futuro che certo potremo attendere con fiducia solo se sapremo immaginarlo e costruirlo tutti assieme ripartendo dalle persone e dalle vocazioni della nostra città.

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