L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 18 Marzo 2018
Il dopo elezioni
Una terra sconosciuta
Ci vorrà parecchia fantasia creativa per risolvere il rebus post elettorale, ma la vera sfida è che i due vincitori vanno messi alla prova. Un po’ quel che diceva l’ultimo Montanelli di Berlusconi esordiente. A scenario inedito sguardo inedito. Lega e 5 Stelle, almeno per la parte di loro competenza, sono chiamati ad un esame di responsabilità. Può non piacere, ma in democrazia usa così. Dimostrino di saperci fare, di avere un piano di governo sostenibile. Vanno testati sui fatti: se sono abili soltanto a sollecitare paure e tormenti di un elettorato volatile, oppure se hanno una cultura di governo dentro le regole del gioco di una democrazia parlamentare. Tanto più che entrambi nutrono l’ardita ambizione di sostituirsi al bipolarismo fin qui noto, sterilizzando l’uno il Pd e l’altro Forza Italia.
La destra oggi ha un suo interlocutore, Salvini, che ha riposizionato la Lega sulla linea del modello austriaco, dove un partito estremista governa con i popolari. L’offerta politica è chiara: protezionismo sul lato economico e della società, un po’ di liberismo e una spruzzata di operaismo senza Marx. Meno chiara, e più contraddittoria, la situazione dalle parti grilline, soprattutto che tipo di relazione hanno con gli istituti rappresentativi. Si coglie un generico parcheggio a sinistra e il vuoto si trova proprio qui e non a destra.
Elettorato di sinistra e forze riformiste e moderate faticano a riconoscersi nel tempo delle emozioni e delle semplificazioni. La domanda è se i populisti e gli anti sistema (se vogliamo continuare a chiamarli così) abbiano la capacità di consolidarsi come premessa di un’avventura tutta da valutare o se siano un fenomeno in transito, legato alla congiuntura, reso multiplo dalla lunga scia delle due recessioni economiche. Il voto in Italia ha contraddetto il giudizio sulla filiera elettorale in Olanda, Francia, Austria e Germania: e cioè la sconfitta dei populisti. Sconfitta relativa. In Austria sono rientrati dalla finestra, in Germania siedono per la prima volta in Parlamento. Ma il paradigma più illuminante è quello francese. La Le Pen, con il suo bottino di voti, è una perdente di lusso e il suo insuccesso deve molto ad un sistema elettorale che, quanto ad efficacia selettiva, equivale ad una ghigliottina. Non solo: il vincitore, Macron, è un tecnocrate senza patria ideologica, estraneo alle tradizioni storiche politiche, il cui successo deriva anche dall’azzeramento dei socialisti e dall’emarginazione della destra repubblicana. Insomma: anche il versante antipopulista per affermarsi s’è posto oltre i codici consolidati. Il vento che soffia non va verso le democrazie consensuali e del compromesso, ma democrazie del comando ora diffidenti ora ostili a quel parlamentarismo che pure i nuovi creativi hanno utilizzato per arrivare al potere. Nell’Europa dell’Est fa scuola la «democrazia illiberale» teorizzata dall’ungherese Orban in nome di un deficit operativo delle istituzioni parlamentari, scivolando così in aree opache e ambigue con restrizioni allo Stato di diritto (i media e la magistratura).
Un arretramento che a Budapest e a Varsavia è sostenuto dai cittadini. Trump ha smentito quella che si riteneva una legge ferrea della politica, ovvero che l’esercizio del potere è in grado di addomesticare gli spiriti più radicali. Non è più così: ciò che si reputava impensabile non solo è reale, ma anche popolare. Il consenso più o meno esplicito in settori dell’opinione pubblica della vecchia Europa verso il machismo di Putin dice molto della fascinazione esercitata dal «dittatore democratico». È in discussione lo stesso ordine liberaldemocratico e gli sbalzi elettorali segnalano orientamenti di massa che superano la semplice alternativa di governo, le stesse capacità ed errori dei leader. Democrazie meno sostanziali e plurali, che soddisfano e si fermano ai requisiti di base per definirsi tali. Siamo in una fase tumultuosa di radicale cambiamento, dentro quelle fratture che «scongelano» i tradizionali concetti del consenso e della rappresentanza.
Aldo Moro, che sapeva leggere oltre la cronaca, 40 anni fa parlava di «tempi nuovi che s’annunciano» e di «un futuro che non è più nelle nostre mani». A mezzo secolo dal ’68, il gran falò della contestazione che ha cambiato la gerarchia delle società e che ha incendiato le piazze di mezza Europa, c’è un ’68 nelle urne di segno politico opposto che scuote le fondamenta dell’ordine internazionale, dell’incontro fra democrazie e mercato, fra partiti e popolo. Si viaggia in una terra sconosciuta: meglio allacciarsi le cinture di sicurezza.
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