Il cammino incerto
e difficile della Brexit

È probabile che, se il 52 per cento di cittadini britannici che hanno scelto la Brexit si fosse reso conto per tempo di tutti i problemi che questa decisione avrebbe comportato, ci avrebbero pensato due volte. Il Regno Unito si trova infatti, per usare le parole di Lord Mendelsson, di fronte al «più complesso processo politico mai realizzato in tempo di pace», e se i negoziati andassero male, il suo Pil potrebbe diminuire del 9,5 per cento in quindici anni. La sola City, principale centro finanziario europeo, perderebbe 40 miliardi e 70 mila posti di lavoro se non riuscisse a mantenere il «passaporto europeo», cioè la possibilità di operare senza restrizioni nella Ue.

L’aspetto più curioso della vicenda è che, subito dopo il voto, non è successo nulla di drammatico: l’economia ha continuato a crescere e la Borsa ha sofferto meno di quelle continentali. Il nuovo governo, guidato da una Theresa May che, sia pure un po’ tiepidamente, aveva preso posizione contro la Brexit, sembrava voler prendere tempo prima di attivare il famoso articolo 50 che regola l’uscita di un Paese dalla Ue. Molti pensavano addirittura a un ripensamento. La tempesta si è scatenata solo la scorsa settimana, quando la premier ha annunciato al Congresso del partito conservatore – in un discorso pieno di inquietanti quanto inedite venature stataliste e populiste che avrebbero fatto rabbrividire la Thatcher – che la procedura sarebbe stata avviata entro il prossimo marzo, per puntare a «un Paese indipendente e sovrano, padrone di controllare l’immigrazione e libero da tutte le regole della Ue e dalle interferenze della sua Corte di Giustizia».

La sterlina ha perduto il 6 per cento in due secondi e oggi è (calcolo del Financial Times) al minimo storico da 168 anni, rendendo i prodotti d’importazione e i viaggi all’estero più cari, e molti investimenti stranieri sono stati sospesi in attesa di avere chiarezza sul futuro. Subito, ha cominciato a infuriare il dibattito sulle modalità della Brexit: deve essere «morbida» (cioè cercando un accordo con Bruxelles sull’accesso al mercato unico in cambio di concessioni sull’immigrazione nel tentativo di limitare i danni), «dura» (cioè accettando tutte le conseguenze di una rottura ed estraniandosi completamente dall’Unione), o una via di mezzo tra le due.

La signora May è partita con una richiesta che l’Europa non potrà mai accettare: mantenere l’accesso al mercato unico e il «passaporto europeo» per le operazioni finanziarie anche dopo avere limitato l’ingresso in Gran Bretagna dei cittadini comunitari. Dalla Ue hanno ribattuto che i quattro pilastri su cui è fondata l’Unione – libera circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e dei cittadini – sono inseparabili.

I negoziati si preannunciano perciò estremamente complicati, anche per la mancanza di precedenti, e il punto di partenza non è certo favorevole al Regno Unito: le esportazioni della Ue verso la Gran Bretagna rappresentano solo il 3 per cento del totale, mentre quelle dalla Gran Bretagna verso l’Europa ammontano al 12 per cento. Infine, c’è la grana della Scozia, che ha votato al 62 per cento contro la Brexit; se i termini del divorzio non le andassero bene, indirebbe un nuovo referendum sulla separazione da Londra (e successivo rientro nella Ue).

Una volta invocato l’art.50, Londra avrà due anni di tempo per negoziare il suo nuovo status, prolungabili solo se ci fosse un (molto improbabile) consenso unanime dei 27. L’impressione è che partirà con il piede sinistro, perché già si sono manifestati dissensi all’interno del governo sulla linea da adottare.

Ministri importanti hanno rilasciato dichiarazioni contradditorie. Alla Camera dei Comuni continua a esistere una maggioranza trasversale contraria alla Brexit, per cui la May ha ritenuto necessario precisare che le trattative saranno di competenza esclusiva del governo.

I giornali, favorevoli e contrari, analizzano i vari esiti possibili, ma tutti insistono su un fatto: uscendo dalla Ue, Londra azzera, e quindi dovrà rinegoziare da capo, tutti i 53 trattati che l’Europa ha concluso con i principali problemi del mondo e resta esclusa perfino dalla Organizzazione mondiale del commercio.

Per giunta, fino a quando non sarà uscita a tutti gli effetti dall’Unione (cioè fino al 2019) non avrà il diritto di avviare le trattative relative, con il rischio di restare isolata durante una lunga fase di transizione: una situazione davvero difficile, provocata da una consultazione popolare in cui elettori spesso male informati hanno votato – come accade ormai spesso di questi tempi – con la pancia anziché con la testa.

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