Il cammino delle riforme
Riprendere quelle interrotte

Tre governi a guida Pd avvicendatisi; estromissione dal Senato di Silvio Berlusconi; esordio degli «uni che valgono uno», i pentastellati; tutti i leader dei principali partiti politici fuori dalle assemblee legislative; presidenti di Camera e Senato privi di una precedente esperienza politica. Queste le principali, disorganiche evidenze lasciateci in eredità dalla diciassettesima legislatura appena conclusasi. Una legislatura caratterizzata da un governo spesso in bilico, che per sopravvivere ha avuto molto spesso bisogno del voto di fiducia nei due rami del Parlamento e di numerosi cambi di casacca.

Senza alcun dubbio, il progetto di riforma Costituzionale ha rappresentato la vicenda politica di maggior rilievo. Portato avanti inizialmente con un accordo tra Pd e Forza italia, venuto meno l’accordo è proseguito con la velleitaria scelta di Renzi di fare ricorso ad un referendum nel quale, com’era prevedibile visto l’ampio schieramento contrario, ha prevalso il no. Oggi, dopo un anno di governo Gentiloni, ci troviamo nel bel mezzo di nuove elezioni che dovrebbero rappresentare il momento più alto e solenne della democrazia e che, viceversa, stanno dando ampia testimonianza di un’evidente, pericolosa crisi sociopolitica e valoriale.

I segnali spia di questa condizione derivano proprio dalla progressiva mortificazione del collante comunitario e civico delle stesse elezioni, che hanno perso la capacità di rappresentare il momento privilegiato di un contatto diretto e responsabile tra il popolo e gli aspiranti candidati. Lo scenario politico si sta sempre più drammaticamente caratterizzando per le risse e gli insulti tra candidati e per le tante improbabili promesse. Ne consegue un diffuso disinteresse popolare, con un preventivabile largo astensionismo.

L’attuale legge elettorale, permanendo la condizione di tre poli irriducibilmente conflittuali, fa sì che dopo il voto si giunga quasi inevitabilmente ad accordi tra coalizioni difficilmente governabili o, in alternativa, che si vada a nuove elezioni. Tale situazione di possibile prolungata destabilizzazione istituzionale fa riflettere su alcuni benefici che, soprattutto in termini di stabilità, sarebbero derivati dall’approvazione della riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre 2016. Oggi avremmo una Carta Costituzionale, certamente incompleta e suscettibile di ulteriori interventi, ma che intanto ci avrebbe assicurato: la fine del bicameralismo perfetto con un Senato ridotto da 315 a 100 unità, con minori poteri legislativi e composto prevalentemente da eletti nei consigli regionali; la possibilità per i cittadini di indire referendum «propositivi» in grado di dare vita ad esperienze di democrazia diretta; il diritto delle donne all’equilibrio di genere nelle Camere e nei Consigli regionali; le minoranze parlamentari con un proprio statuto e il diritto di fare ricorso alla Consulta contro le leggi elettorali imposte dalla maggioranza; definitiva abolizione del Cnel e delle province; una più chiara definizione dei compiti delle Regioni e dello Stato; le retribuzioni dei 917 Consiglieri regionali sensibilmente ridotte, in quanto agganciate alla retribuzione del sindaco del capoluogo regionale; il governo privato della possibiltà di limitare l’azione parlamentare con decriti omnibus, maxiemendamenti e fiducie.

Perché non aprire la campagna elettorale anche a riflessioni su questi temi? Ciò darebbe la possibilità di assistere a confronti politici di ben altra portata rispetto agli attuali, dai quali potrebbe emergere, pur rimanendo ciascuno sulle proprie posizioni programmatiche, la volontà di riprendere il filo interrotto delle riforme costituzionali. E chissà che proprio la presenza di visioni politiche strategiche di più ampio respiro non possa portare al voto una parte dei tanti probabili astenuti.

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