L'Editoriale
Mercoledì 09 Novembre 2016
Il bisogno di certezze
nell’epoca della crisi
L’accelerazione dell’integrazione economica globale e lo sviluppo dirompente della rivoluzione tecnologica hanno creato grandi opportunità ma al contempo grandi insicurezze. La perdita improvvisa del posto di lavoro a causa della più competitiva concorrenza di aziende al capo opposto del mondo, la legislazione sempre meno a difesa del lavoratore, la sensazione che ciò che vale oggi domani è già superato, l’essere proiettati nell’arena mondiale senza un punto di riferimento, una stella polare cui guardare, l’arrivo di milioni di immigrati verso i quali prevalgono solidarietà e pietà cristiana ma il cui numero impensierisce, tutto questo crea disorientamento.
Ed è la politica il sismografo che registra le scosse di questo terremoto quotidiano che lacera il tessuto sociale. Non c’è categoria sociale che non guardi al futuro con apprensione, dall’operatore economico coinvolto nel processo di ammodernamento della struttura produttiva in ansia per le lentezze del Paese, al giovane disoccupato che non vede un futuro, all’anziano che teme per la sua pensione, tutti guardano alla politica come il porto sicuro cui approdare.
Grande è quindi la delusione quando gli attori politici anziché trovare un denominatore comune con il quale affrontare i problemi del Paese si lasciano trascinare dalle divisioni. Il cittadino è già sufficientemente esacerbato di suo per dover mostrare comprensione per interessi di parte, risentimenti personali, ambizioni narcisistiche. Tutto questo per la politica si esprime in una sola richiesta: certezze. Ed è un fenomeno planetario. Basti guardare alle elezioni Usa per capire che un candidato come Trump ha potuto correre la sua corsa perché grande è la confusione sotto il cielo americano. E pur di avere certezze, anche a buon mercato, l’elettore disdegna l’establishment e non guarda se chi le propone è più o meno raccomandabile. Per lui conta solo una cosa: dare sfogo alla propria protesta. Del resto Hillary Clinton è chiamata a rassicurare a sua volta chi si sente colpito dalla precarietà nella quale è caduta l’«american way of life».
Non deve quindi stupire che anche in Europa il cittadino sia inquieto e propenso a scardinare i meccanismi classici dei partiti tradizionali per disdegnare il presente e volgere lo sguardo ad un passato rassicurante. Cerca valori che prima erano incorporati dallo Stato sociale, dalle identità nazionali, dalle tradizioni vecchie sì, ma collaudate. Per far fronte a queste necessità che prima ancora di essere politiche sono psicologiche, esistenziali, i partiti storici hanno una sola carta da giocare: affidabilità nel guidare il Paese fuori dalla crisi. E non c’è politico europeo di successo che non si muova in questa direzione. Chi ha avuto occasione di assistere ad un congresso della Cdu (Unione cristiano democratica ) tedesca sa a quale gogna psicologica e imbarazzo collettivo sia costretto chi osa criticare Angela Merkel. Il concetto è chiaro : non si fa la fronda, se vi sono divergenze vengono discusse ma poi si giunge ad una sintesi e la linea maggioritaria prevale. Chi è stato sconfitto è tenuto a non mettere i bastoni fra le ruote. Il vincitore alle elezioni detta la linea politica e per quattro anni può contare sulla fedeltà del suo partito, senza correnti o fazioni che boicottano le azioni di governo.
Un modello che se importato in Italia verrebbe etichettato come autoritario ma che risponde ad un principio chiaro di democrazia : si è eletti per governare. Boicottare l’azione del primo ministro del proprio partito non è percepito come atto politico, ma come intrigo. Contro la politica politicante resta l’unica ricetta valida per dare certezze ai cittadini.
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