L'Editoriale
Martedì 19 Luglio 2016
I veterani americani
una bomba in casa
Gavin Eugene Long, il ventinovenne che ha ucciso tre agenti di polizia a Baton Rouge prima di essere ucciso a sua volta, era stato un marine e si era congedato con onore da sergente nel 2010. Era la versione corretta, insomma, di Micah Xavier Johnson, 25 anni, che per sei anni aveva servito nell’esercito come soldato semplice e che nel 2014, dopo sei mesi di turno in Afghanistan era stato rimpatriato e congedato d’urgenza per aver molestato sessualmente una collega militare. Johnson era il cecchino di Dallas che ha assassinato cinque poliziotti. L’uno e l’altro, poi, erano i fratelli in arme di Eddie Ray Routh, il veterano dell’Iraq che uccise in un poligono il famoso cecchino Chris Kyle, quello cui Clint Eastwood ha dedicato il film «American sniper».
O di Jimmy Lee Dykes, altro veterano finito male, ucciso dalla polizia dopo che aveva preso in ostaggio un bambino. O di Christopher Dorner, cecchino appena meno micidiale di Kyle, che un bel giorno si è messo a sparare sui suoi colleghi dopo essere stato licenziato dalla polizia. Nelle pieghe della questione nera, e cioè delle polemiche sull’uso eccessivo della forza che gli agenti americani si permettono facilmente nei confronti della gente di colore, si è ormai infilata anche una questione veterani. Che cosa succede a questi uomini che hanno ricevuto una formazione alla guerra, e spesso hanno partecipato alla guerra, quando tornano a casa? Il Dipartimento per gli affari dei veterani del governo Usa studia con costanza il problema e ci dice, per esempio, che il disordine da stress post-traumatico (di cui palesemente soffrivano molti degli ex soldati che abbiamo citato) colpisce molto più facilmente chi è stato in Iraq di chi è stato in Afghanistan. E che i veterani colpiti dalla sindrome sono tra il 10 e il 20% del totale.
Altri dati dello stesso Dipartimento creano ulteriore allarme. Tra il 2001 e il 2009, quasi 1,8 milioni di soldati americani hanno prestato servizio attivo in Iraq o in Afghanistan. Di questi, circa la metà ha chiesto il supporto offerto dal governo. E circa la metà di quelli che l’hanno chiesto sono poi stati assistiti in base a diagnosi di disturbi mentali e psicologici.
Gli stessi studi rilevano che il «disordine» colpisce più facilmente se i soldati hanno un grado basso, poca scolarizzazione, sono single, sono ispanici. E non può non venire alla mente, qui, la campagna che fu fatta nel 2003, per l’invasione dell’Iraq, quando veniva offerta la green card (il permesso di soggiorno illimitato) ai giovani immigrati che avessero accettato di arruolarsi. I dati ufficiali si fermano al 2009. Ma anche così stiamo parlando di oltre 400 mila uomini che soffrono ma sanno sparare e applicare tecniche militari in un Paese dove procurarsi armi, anche da guerra, è problema di poco conto. Una bomba innescata nel corpo sociale, nonostante gli sforzi che le autorità, militari e non, compiono per renderla meno pericolosa. Basta pensare che il Dipartimento per gli affari dei veterani dispone per il 2017 di un budget di 182,3 miliardi di dollari.
Sembra una questione senza uscita. Anche perché sono proprio uomini che hanno incarnato la politica americana nel mondo, ovvero l’inclinazione a gestire le sorti globali anche con l’impiego della forza militare, a rivoltarsi contro la stessa istituzione che hanno rappresentato in divisa. Il primo «Rambo» fu un capolavoro, quasi una profezia. Ma il western quotidiano trasmesso dalla politica è più forte. Soprattutto se ripete che in fondo a ogni discussione, anche tra le nazioni, c’è sempre il diritto del più forte e del più armato.
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