Dai sondaggi ecco
un’Italia divisa in tre

Il voto del 4 marzo potrebbe dividere l’Italia in tre, coerente con il tripolarismo. Le simulazioni dell’Istituto Ipsos sui 231 collegi uninominali della Camera (un terzo del totale) dicono infatti che il centrodestra farebbe il pieno al Nord tornando allo schema forzaleghista degli anni ‘90, il Centro rimarrebbe fedele al centrosinistra, mentre il Sud sarebbe diviso fra centrodestra e 5 Stelle con una prevalenza grillina in Sicilia e Lazio: un Meridione che si rende contendibile ai possibili vincitori. Il Lombardo-Veneto si confermerebbe una terra non particolarmente generosa verso la premiata ditta Di Maio-Grillo-Casaleggio, mentre il «socialismo appenninico», ultima trincea progressista, potrebbe perdere le Marche.

Interessante anche il dato dell’ex rossa Liguria, la culla di Grillo e oggi governata da Toti, un po’ forzista e un po’ nordista: qui i 5 Stelle sarebbero in vantaggio. Le simulazioni sono un indicatore da prendere con cautela, specie con questa nuova legge elettorale (un sistema misto, prevalentemente proporzionale con quota maggioritaria) nata per rappresentare un sistema a tre, ma coerenza ed efficacia andranno verificate. Il Rosatellum, con il recupero del proporzionale, riporta le lancette un po’ indietro: non fabbrica una maggioranza, semplicemente si limita a stabilire chi ha preso più voti. La governabilità non è garantita. I risultati saranno sì definiti, ma non «definitivi», nel senso che restano aperti al gioco parlamentare: il governo che verrà, se verrà, sarà l’esito delle alchimie negoziali, di chi avrà più filo da tessere.

I sistemi elettorali hanno un effetto meccanico, in quanto traducono i voti in seggi, ma ne hanno anche uno strategico perché condizionano le mosse dei partiti. E qui i collegi uninominali del maggioritario possono dire molto. Raccontare, cioè, quel che le simulazioni in questione non sono ancora in grado di dire, in quanto non conosciamo l’essenziale, quel che fa la differenza: il nome del candidato. La regola vuole che nel proporzionale si scelga la lista, nel maggioritario invece i competitori con un nome e un volto. In questi collegi si assegnano i seggi ai candidati che hanno più voti indipendentemente dalla quota di consensi ricevuta. Non ci sono mezze misure: il vincitore prende tutto.

Nel maggioritario sono decisive le coalizioni, la qualità e la notorietà di chi si mette in partita, oltre che il legame con il territorio. Lo scarto che dà la misura è il peso specifico del destinatario del voto. Si capisce così, per esempio, perché il Pd voglia candidare il ministro Minniti anche al Nord per arginare la Lega. Ci sono poi alcune variabili che influiscono in profondità sul comportamento elettorale e sempre difficili da sondare. Uno è l’astensionismo e capire il gioco che determina, l’altro sono gli indecisi (stimati al 30%) che, quando non disertano le urne, decidono all’ultimo momento spostando quote non marginali. Si naviga nell’incertezza e non a caso il presidente Mattarella, per la terza volta in un mese, ha lanciato un appello al voto.

L’altra incognita riguarda i primi ragazzi nati dopo il Duemila e, freschi maggiorenni, pronti all’esordio delle urne: sono più di mezzo milione e, secondo il sondaggio pubblicato dalla «Stampa», a uno su due non interessa la politica. C’è poi la mina vagante del voto fluttuante, quello volatile da una parte all’altra. Le elezioni del 2013, con la non vittoria di Bersani e il volo grillino, sono state clamorose: il 39% ha cambiato il proprio voto rispetto a quello espresso in precedenza. Mai visto un tasso così alto nella storia repubblicana. C’è infine tutta la campagna elettorale da giocare: mettiamo nel conto l’imponderabile, infortuni, tonfi, recuperi, lo scatto spiazzante o vecchie conferme. E un fattore chiave: la tenuta dell’equilibrio fra ciò che è razionale e quel che è emotivo o se prevarrà, come par di capire, la spinta irrazionale del voto «contro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA