I liberali in libera
uscita e in prestito

Anche alla fine della Seconda Repubblica bisogna fare i conti con loro: i moderati, quelli che in gran parte si collocano nel centrodestra, che frequentano la politica con la passione fredda e che popolano la zona grigia che determina il vincitore.

L’implosione e il declino personale e politico del berlusconismo hanno liberato un universo umano che si ritrova orfano e senza casa. Nell’analisi dello storico Alessandro Campi sul «Messaggero», si tratta di un mondo «che in maggioranza non crede ormai a niente, disincantato oltre ogni limite e dunque disponibile a correre qualsiasi avventura: anche quella di votare il Pd».

Una realtà da ceto medio riflessivo in versione centrodestra, una costante storica e sociologica che viene da lontano e che continua ad essere maggioritaria nel Paese. Se ieri, però, ha avuto il palcoscenico della Seconda Repubblica con l’egemonia rumorosa del forzaleghismo, oggi, almeno nelle sue componenti più consapevoli, vive un protagonismo rinnovato ma senza strilli: un po’ per eccesso di renzismo e un po’ per minorità del berlusconismo, ritrovandosi così liquido e fluido.

Meno barricate, più voglia di essere della partita, di andare a vedere le carte dell’avversario (Renzi), di reagire alla crisi del berlusconismo non rifugiandosi nel non voto ma nel rischio della responsabilità costruttiva. I moderati, le truppe indispensabili e per questo coccolate superando i vecchi confini di un’incomunicabilità umorale, rimangono un boccone ghiotto: non godranno di particolare buona stampa, eppure al dunque, quando bisogna arruolarli, si rinuncia all’esame del sangue nei loro confronti.

La caccia al voto di centrodestra in libera uscita è in corso da un po’ di tempo ed è entrata in una fase decisiva con il progetto di Renzi di trasformare il Pd in un non meglio precisato partito della nazione, un partito supermarket e interclassista, rappresentativo di ogni realtà del Paese e quindi capace di contenere tutto e il contrario di tutto. In questa prospettiva il consenso dei moderati diventa significativo, specie in una fase in cui non si avverte un’opposizione praticabile intesa come progetto di governo.

Non ne dispone la forza sterile di Grillo, mentre il disarmo di Berlusconi propone soltanto un partito dilaniato da lotte intestine e che non c’e’ e un leader afflitto da altre preoccupazioni. In sostanza: mentre il ruolo di Forza Italia equivale ad un appoggio esterno al governo, una specie di socio di minoranza, la sola vera opposizione al premier viene dal fuoco amico, dall’ala sindacale e di sinistra del Pd.

Lo spariglio di Renzi sull’asse centrale degli schieramenti, con la breccia aperta fra i moderati e sorretto dall’idea di una legge elettorale con il premio di maggioranza al partito e non alla coalizione, libera risorse sulle ali aprendo spazi alla radicalizzazione delle estreme. Si può leggere anche in questo modo la mutazione genetica della Lega di Salvini che da padana s’e’ fatta lepenista, cioè nazional-nazionalista e in viaggio pure al Sud: non potendo più contare sulla copertura elettorale di Forza Italia, occupa ora lo spazio lasciato vuoto dalla destra sociale, ingaggiando il derby con Grillo sul voto antieuropeo, la nuova ragion d’essere dei radicali.

La nascita di questa destra dura e pura, cioè aggressiva, è un’ulteriore frattura nel campo dei moderati: come possono stare insieme, almeno sul piano dei valori (se ancora esistono), i replicanti di Marine Le Pen e coloro che si richiamano all’europeismo liberale? Ecco perchè, per la maggioranza che governa il Pd, diventa strategico offrire una risposta democratica alle domande poste dai moderati in sonno, pur nella consapevolezza che si maneggia una realtà composta da mondi differenti e tenuta insieme dal non riconoscersi nelle posizioni della sinistra: si va dal popolo delle partite Iva al commerciante, dall’imprenditore global all’artigiano, dal liberale vecchio stile al centrista senza fissa dimora, dall’arrabbiato al conservatore «legge e ordine».

Il blocco sociale del successo di Berlusconi è stato attaccato con relativo successo da Grillo alle politiche del 2013 e poi è toccato, alle europee di quest’anno, a Renzi, dato che circa il 15% del 41 % dei democratici arriva dalla sponda moderata. Ma è ancora presto per capire se la direzione della diaspora dal centrodestra è soltanto un insieme di episodi o una tendenza, l’esito di una speranza o di una convinzione, oppure un gettare la spugna affidandosi all’uomo forte di turno, all’ultima spiaggia prima del diluvio. Quello dei transfughi delle truppe moderate rimane un voto in prestito, giocato molto sulla concretezza dei fatti senza ghirigori sofisticati o premure di schieramento. E soprattutto, stressato dalle delusioni, pronto a tornare a casa.

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