L'Editoriale
Lunedì 28 Novembre 2016
Furbetti da licenziare
e la politica confusa
Notizia di ieri. Le norme che permettevano il rapido licenziamento dei «furbetti del tesserino» rischiano di essere vanificate dalla bocciatura, da parte della Corte costituzionale, di una parte della legge di riforma dell’amministrazione (nota come «legge Madia»). Questione che rinvia alla notizia di ieri l’altro: i giudici della Consulta hanno ritenuto incostituzionali alcune parti della riforma, perché essa non rispettava il principio, sancito in Costituzione, in base al quale occorre che le leggi, in alcuni ambiti definiti, debbano essere varate «d’intesa» con le Regioni.
L’intreccio tra elementi di incostituzionalità di una legge e vuoti normativi che ne conseguono apre – come sempre – le porte a smottamenti nella legislazione, ma soprattutto a ulteriori storture derivanti da quel vuoto. In linea teorica, ma non soltanto teorica, gli impiegati infedeli potranno trovare il modo di sfuggire alla punizione che meritano. L’ipotesi che ci si possa valere di questa intollerabile scappatoia ha immediatamente scatenato la bufera delle reazioni. Come è possibile che coloro i quali, in barba alle norme e all’etica civile, non vanno a lavorare e si fanno timbrare il cartellino da altri non vengano licenziati? Come è possibile prendere lo stipendio da un’amministrazione pubblica (stipendio pagato, quindi, dai contribuenti) in modo fraudolento e non venire puniti per questo? Domande assolutamente lecite e ben poste. Che esigono una risposta. Non evasiva.
Per provare a rispondere, occorre qualche passo indietro sia nella cronaca (e nella storia) del modo di fare le leggi, sia nell’analisi del loro contenuto. La necessità dell’intesa è figlia del criterio di «legislazione concorrente» tra Stato e Regioni, sancito dalla riforma costituzionale del 2001 (legge costituzionale n. 3 di quell’anno). Riforma che aveva operato il ribaltamento dell’articolo 117 della Costituzione, dando alle Regioni la potestà di legiferare in via generale, esclusi gli ambiti – specificamente indicati – che restavano allo Stato. Quella modifica della Costituzione, pensata e voluta come segno di apertura nei confronti delle forze politiche che propugnavano il federalismo, ha provocato molti disastri, a cominciare dall’incredibile incremento dei ricorsi alla Corte costituzionale. La quale fa il suo mestiere e, quando ravvede in una legge la lesione di una norma della Costituzione, ha il dovere di dichiararne l’incostituzionalità. Di conseguenza, prendersela con i giudici della Consulta significa comportarsi come il lupo della fiaba di Fedro, nella quale il feroce animale accusa l’agnello sottostante di inquinargli l’acqua che lui stava bevendo. Ed è certo spiacevole – per dir così – dover registrare che il presidente del Consiglio dichiari che la bocciatura della legge di riforma sia colpa dei soliti burocrati. La burocrazia – se con tale riferimento si intende l’insieme dei dipendenti pubblici – non c’entra assolutamente nulla. Magari gli unici burocrati ai quali è possibile addossare una qualche colpa sono gli alti dirigenti della Funzione pubblica o, meglio ancora, le strutture di staff del ministro le quali scrivono materialmente i testi legislativi da portare in Parlamento.
Occorre dire in modo chiaro che la responsabilità di questi inciampi è principalmente politica. Ed è la politica che dovrebbe riflettere sulla qualità delle leggi delle quali si fa promotrice. Ai funzionari di vertice dell’amministrazione può essere addossata la colpa di non aver dimostrato la competenza necessaria a capire che le norme della legge di riforma erano scritte male e che sarebbero inevitabilmente incappate nel giudizio di incostituzionalità. Oppure – pensando alle dinamiche tra politici e alti burocrati – si deve ritenere che essi non hanno avuto la stoffa per resistere alla richiesta (del governo, del ministro) di percorrere una strada sbagliata. Oltretutto, prendersela – a casaccio – con la «burocrazia» (parolina magica per coprire magagne di varia natura e provenienza) costituisce un doppio errore, perché penalizza inutilmente i tanti dipendenti pubblici che fanno con onestà e senso del dovere il loro lavoro e occulta le vere responsabilità del vicolo cieco nel quale ci si è ficcati.
I furbetti del cartellino potevano (e potrebbero ancora) essere puniti e licenziati anche in base alle norme preesistenti alla sentenza della Consulta. Su quel terreno si potrà saggiare realmente quanto alti dirigenti e responsabili politici sapranno usare in modo deciso le norme esistenti per mandare a casa chi non lavora o commette reati.
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