I due numeri che mettono
in crisi super Mario Draghi

Nomen omen: c’è rimasto solo un drago, per rianimare l’economia. Ma la politica monetaria non sostituisce l’economia reale. Prendiamo le banche. Il normale piccolo risparmiatore si sente dire in tv dagli esperti che sono solide ma poi confronta con i fatti borsistici queste dichiarazioni, tecnicamente giuste perché generalmente i bilanci sono in utile e ci sono i dividendi. Ma perché dall’inizio dell’anno sono cadute in Borsa, quando è andata bene, della metà del loro valore e solo Mario Draghi riesce a tirarle su?

Proviamo a rispondere, senza usare i sofisticati indici che contano a Francoforte – Tier1, Total capital ratio, classe 1, npl ecc. – e promettendo di non usare neppure un termine in inglese. Utilizzeremo solo due numeri. Il primo è 202 (misurato questa settimana), l’altro è 389 (misurato al 31 dicembre scorso).

Cominciamo col primo. Duecentodue è l’ammontare in miliardi delle cosiddette sofferenze, cioè i crediti che le banche stesse giudicano difficili da recuperare e devono compensare sull’altro piatto della bilancia, quello delle coperture. Così, gli esperti possono anche obiettare che non è vero che si tratta di 202 miliardi, perché quasi la metà è già stata coperta, su spinta e spintoni di vigilanze vecchie e nuove. Peccato però che se quei crediti vengono svenduti, diventano perdite e soprattutto che i 90 miliardi di copertura vengono tolti dal circolo virtuoso dei prestiti buoni, quelli che fanno ripartire l’economia grazie a mutui o finanziamenti alle imprese. E così abbiamo la prima ruota della bicicletta instabile che stiamo descrivendo.

Venendo al secondo numero, 389, è quello del peso dei titoli pubblici italiani che le banche hanno in corpo, che cresceranno dopo gli incentivi di Francoforte. Una cifra che, sempre secondo gli esperti, è anche virtuosa perché se non ci fosse, il debito pubblico non sarebbe gestibile, aumenterebbero gli interessi, salterebbe il limite massimo di deficit del 3% e il governo dovrebbe ricorrere alle tasse per fare manovre «espansive»: agevolazioni per le assunzioni, 80 euro e quant’altro.

Questo non commuove i famosi mercati, che oggi sono computer potentissimi (che si sospetta agiscano in automatico) che stanno in prevalenza a Londra, e si nutrono di algoritmi misteriosi, cui è difficile dar torto. Il differenziale con i titoli migliori è ancora in altalena ed è proprio l’Italia che non dà fiducia, anche se i mercati dovrebbero ricordarsi che la grande crisi è stata affrontata con mezzi propri, non con 200 miliardi di aiuti pubblici, come in Germania. Trecentottantanove è comunque una gran cifra, se pensiamo che è quasi la metà di tutto quello che spende lo Stato per funzionare e quasi un quinto della terza cifra pesante e determinante della nostra economia, il debito. Miliardi che fino a ieri erano almeno un affare, per le banche. Ricevevano soldi dalla Bce a tassi irrisori e compravano titoli che comunque rendevano. Solo quattro anni fa 14 miliardi, poi 8, poi 5, poi 2 e ora solo 500 milioni.

La seconda ruota della bicicletta consente insomma di star in piedi, ma la velocità è sempre più bassa. Le difficoltà che abbiamo descritto non sono le uniche, naturalmente, e le banche devono quanto meno unire le forze, anche se spesso è doloroso (Bergamo ne sa qualcosa). Ma quei due numeri inceppano un meccanismo che non riesce a far girare bene i soldi: dal risparmio (che per fortuna c’è) alla produzione, da questa al lavoro, da questo ai consumi, magari con un po’ di inflazione (almeno il 2%) a lubrificare il meccanismo.

Che fare, dunque? Per il primo numero, banche che sappiano fare il loro mestiere quando erogano i crediti (e magari non diano come a Vicenza un milione di emolumento al presidente Zonin nell’anno orribile 2015) . Per il secondo, uno Stato che affronti una buona volta il problema del debito senza farsi tirare la giacca da Bruxelles. Non abbiamo con questo tranquillizzato nessuno, ce ne rendiamo conto, ma abbiamo parlato in italiano e raccontato di una bicicletta, senza sognare una Ferrari.

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