I conti del Paese
fra promesse e realtà

L’Italia è dentro un processo traumatico di trasformazione politica che va oltre la Seconda Repubblica degli anni ’90: non c’è più il vecchio, senza che sia chiaro cosa sia il nuovo. Di Maio ha il difetto di prendersi troppo sul serio e infatti afferma che, con l’intesa ormai quasi definita con Salvini, si sta scrivendo un pezzo di storia. Bontà sua. In realtà i due gemelli diversi del populismo italiano sono i protagonisti di una svolta che prima o poi potrebbe vederli in un ruolo diverso, per così dire meno glorioso. Lo psicodramma seguito al voto del 4 marzo dice di un sistema alla ricerca di un nuovo baricentro politico, l’ultima tappa di un’evoluzione-involuzione iniziata nel 2011 con la crisi del debito sovrano e con il collasso del regime berlusconiano, mangiandosi tutta la prima linea: Monti, Letta, il primo e ultimo Renzi, il tandem d’antan Bersani-D’Alema.

Non è un paradosso che in un mondo che cambia troppo in fretta per essere afferrato, l’opposizione trasversale sia oggi rappresentata da due partiti spaiati rispetto allo spirito dei tempi e che pure hanno cercato di governare i tormenti del laboratorio Italia: Pd e Forza Italia. Quest’ultimo partito potrà confidare certo nella rinnovata vitalità di un Berlusconi rieleggibile per via giudiziaria, ma in politica i tempi sono tutto. Il vecchio leone è tutt’altro che domato, tuttavia il forzaleghismo s’è mutato in legaforzismo, il ceto medio che l’ex Cavaliere ha radicalizzato è andato altrove, il popolarismo alla Merkel abbracciato all’ultimo momento non ha più lo smalto di un tempo.

C’è sempre un inizio e non è detto che sia il migliore dei mondi possibili. All’Italia, non da oggi, è capitato di ballare sulla frontiera dell’eresia con esiti alterni. Per la prima volta potremmo avere un governo senza le famiglie storiche riconducibili al centrosinistra e al centrodestra. Sul piano statistico, là dove la sostanza è più consistente dei numeri, l’Italia, fra i Paesi fondatori dell’Europa e partner dell’eurozona, sarebbe l’unico ad avere un governo non allineato alle convenzioni storiche.

In questa disfatta per la cultura repubblicana, c’è da chiedersi quanto sia profonda la responsabilità di un Pd che di quel mondo ne rappresenta l’essenza: anche oggi, dinanzi alla lacerazione velenosa del tessuto sociale, non si coglie la consapevolezza di un’autocritica che superi lo schema ripiegato su se stesso, quello del renzismo-antirenzismo.

Bene, ora tocca ai quasi vincitori dimostrare il grado di maturità. Di Salvini conosciamo l’oltranzismo e le fughe in avanti che saranno ridimensionate dalle condizioni date. Del suo alleato-competitore, del suo andirivieni fra «il qui lo dico e domani lo nego», conosciamo il nomadismo contraddittorio: un giorno qui e domani là. Lega e 5 Stelle sono due fenomeni convergenti di nazionalismo e la polemica con la Ue, ora camuffata ora esplicita, è fra i loro non molti tratti in comune.

Piaccia o meno, l’Italia, che pure i compiti fiscali li ha assolti, resta un sorvegliato speciale in Europa. Per fortuna abbiamo un signore che si chiama Mattarella, uomo mite, ma che, non a caso, ha ribadito il perimetro costituzionale di quel che compete al presidente della Repubblica con una serie di ripetuti interventi mirati. Punto primo: è il presidente della Repubblica che nomina il capo del governo e, su proposta di questo, i ministri. Punto secondo: europeismo, atlantismo, conti pubblici, immigrazione. In una Repubblica parlamentare, le attribuzioni del presidente sono a fisarmonica e si estendono là dove lo esigono i deficit o i rischi politici. È il nostro caso, tanto più che la questione di queste ore, ormai i tempi supplementari, riguarda l’indicazione del capo di governo che i due partiti forniranno oggi. Un premier non tecnico, in quanto sarebbe percepito come il tutore di un sodalizio da tenere al guinzaglio, ma un politico e in questo caso un’intelligenza non schierata ma in grado di ricondurre due populismi ai principi di realtà e alle compatibilità europee. La ricreazione sta per finire, pur sapendo i limiti del «contratto» fra Lega e 5 Stelle, che dovrà addomesticare due irruenze contrapposte. In autunno, con la legge di bilancio che imporrà fatti non seduttivi ma obbligati nella loro impopolarità, avremo modo di capire a che punto siamo fra promesse e realtà. Sempre che i conti per l’Italia tornino: la cosa più importante.

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