Guerra, misura colma. Ma Papa Francesco non lancia solo appelli

Smonta la retorica dello zar e dalla finestra su piazza san Pietro Jorge Mario Bergoglio abbandona ogni cautela e spiega che non si tratta affatto di «un’operazione militare», ma di «guerra». È il passaggio più importante delle parole pronunciate dal Papa all’Angelus domenica 6 marzo ed è il punto politico più rilevante della posizione della Santa Sede, per altro giudicata da alcuni nei giorni scorsi troppo diplomatica.

Eppure la smentita della propaganda putiniana insieme all’annuncio che la Santa Sede è disposta a «fare di tutto» non sono il segnale di un cambio di passo e di un avvicinamento del Vaticano ad un’azione di «peace enforcing», simile a quella della Nato nei Balcani, sulla quale all’epoca concordò anche Karol Wojtyla. L’azione della Santa Sede resta molto pragmatica e soprattutto non ha un perimetro, anche se ciò comporta qualche rischio e può essere valutata deludente da alcuni. Le parole di ieri mattina, a partire dalla sferzata antiretorica e a seguire con il ringraziamento ai giornalisti, dimostrano che in Vaticano sanno come utilizzare molto bene le parole per far arrivare messaggi precisi al Cremlino, sicuramente più efficaci dell’interventismo verbale delle bandierine piantate qui e là. L’accenno ai giornalisti non è affatto una carezza agli inviati di guerra che rischiano la vita per evitare che tutto finisca nella nebbia delle propagande. È un meticoloso e rigoroso richiamo e rimprovero alla disposizione del Cremlino di imbavagliare prima e carcerare poi chi usa la parola «guerra» e racconta le manifestazioni dei pacifisti russi.

Ma è anche una delicata e acuta rimostranza verso quei network che hanno deciso di sospendere le cronache da Mosca e di vicinanza ai colleghi che lo hanno accettato malvolentieri e pubblicamente rimarcato. La posizione della Santa Sede è assolutamente chiara e prende in considerazione gli scenari drammatici dell’attualità e le prospettive future, comprese quelle ecumeniche del dialogo tra Chiese sorelle come sono quelle cristiane in Russia e in Ucraina. Ha usato la parola «imploro», segno che la misura sul terreno è colma, ha chiesto il cessate-il-fuoco («Cessino gli attacchi armati») e ha ribadito che deve prevalere «il negoziato». La preoccupazione del Papa è quella che si lavori per creare condizioni che oggi non ci sono. Ma non è un generico appello, perché il peso specifico della parole di ieri è molto robusto soprattutto in relazione a quell’aggiunta a braccio sul fatto che «prevalga pure il buon senso». Qual è il buon senso invocato dal Papa? Sicuramente non quello della visione imperiale neo-zarista di Putin, ma non è nemmeno quello dell’equidistanza gracile e sterile di chi grida «né con Putin, né con la Nato». E qui ribadisce un concetto espresso molte volte e cioè la sua totale diversità da chi vuole occupare spazi.

Il Papa intende aprire processi, senza definire nulla, senza darsi un perimetro, senza fermarsi davanti a porte chiuse, senza timore di discutere con chicchessia. Può essere la Cina, la Turchia, Israele? Tutto va bene per fermare la «pazzia», per impedire che scorrano «fiumi di lacrime e sangue». E la Santa Sede è completamente a disposizione per evitare che salti il banco, cioè quel diritto internazionale, che distingue già aggressore e aggredito, ma che tuttavia non certifica la scelta della guerra come soluzione, perché mette a repentaglio la vita del mondo intero.

Il paradigma al quale ispirarsi è sempre quello di Angelo Roncalli contenuto nell’appello per la crisi di Cuba del 2 ottobre 1962: «Promuovere, favorire, accettare colloqui a tutti i livelli e in tutti i tempi è una regola di saggezza e di prudenza».

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