L'Editoriale
Giovedì 19 Novembre 2015
Gioventù bruciata
I demoni di Parigi
«Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagnerà perché Parigi è una Festa Mobile». Quando Hemingway arrivò a Parigi non era ancora Hemingway. Era un ragazzo di 22 anni che sognava di diventare scrittore. A Parigi, grazie alle enormi possibilità intellettuali che la città gli offriva, capì che lo sarebbe diventato.
L’espressione Festa Mobile allude al miracoloso impasto di slanci ideali, amore e leggerezza che rende così bella la giovinezza: l’idea che la vita sia davanti a noi e che basti allungare le mani per afferrarla.
La religione spiega molto, ma non tutto dei fatti parigini di venerdì 13. Le vittime sono in gran parte giovani. I luoghi scelti come bersaglio sono stati presi di mira proprio perché frequentati da giovani. Ed anche gli attentatori sono giovani.
Ismaïl Omar Mostefai, il jihadista che si è fatto esplodere al Bataclan, non aveva ancora vent’anni ed era nato a Courcouronnes, una cittadina di diecimila abitanti nell’Essonne, appena sotto Parigi, eppure già Francia profonda.
Dieci anni fa le banlieues parigine furono scosse da rivolte di inaudita violenza. Non è ancora chiaro perché quell’inferno si scatenò, ma dieci anni dopo possiamo dire che quelle periferie sono ulcere sanguinanti, e sfornano terroristi. Nel XX Secolo erano zone «rosse», in senso elettorale e sociologico, perché il comunismo – tra il molto altro – era un formidabile collante sociale. Ma questo accadeva in un mondo dove le fabbriche stavano al centro del lavoro, e questa centralità permetteva agli operai di non sentirsi esclusi, un modo come un altro per tamponare le angosce e sfangarsela con una dignità oggi sconosciuta.
Negli ultimi anni, sotto l’effetto combinato dell’esplosione dei flussi migratori e della de-industrializzazione, l’integrazione in Francia è diventata difficilissima. I figli degli immigrati di seconda e terza generazione vivono in immense periferie, anche di 100 mila abitanti e con decine di nazionalità rappresentate, come Saint-Denis, teatro del blitz di ieri mattina, o i grattacieli senz’anima di Bobigny e La Courneuve, quelle cité del famigerato «93», il dipartimento di Seine-Saint-Denis reso noto dal film «L’odio» in cui Mathieu Kassovitz, già negli anni ’90, raccontava di come «un arabo in un commissariato dura meno di un’ora». I giovani qui si sentono ghettizzati: con un’espressione infelice l’ex presidente Sarkozy l’aveva battezzata «racaille», plebaglia. Parigi è circondata da un anello stradale – il Boulevard Périphérique – che tiene separata la città dalla periferia: ricorda il fossato di un castello medievale. Dentro c’e la Parigi che tutti conosciamo, film, cartoline e pubblicità, fuori parecchio cemento e molti casermoni.
I giovani che ci vivono deragliano facilmente. Viscerali e aggressivi per circostanze avverse, appallottolano tutto quel che la scuola propone. A casa loro si sentono sradicati, quando varcano il fossato ed entrano a Parigi si sentono frustrati perché vedono un ambiente esteticamente bellissimo con mille possibilità di divertimento e promozione, sociale e culturale. Un Paese di Bengodi da cui si sentono esclusi. Chi sta dentro – pensano – alza il ponte levatoio per lasciarci fuori.
Due gioventù, una di fronte all’altra. Una, per usare uno slogan facile, è gioventù bruciata (ma il titolo originale del film con James Dean era «Ribelle senza una ragione»), ammaccata, disillusa e percepisce l’altra come privilegiata.
Nel secolo scorso ogni figlio di operaio sperava di fare strada e magari salire nella scala sociale e qualcuno certo mirava a raggiungere posizioni di potere, attraverso la lotta di classe. Ma l’ideologia comunista offriva un orizzonte di valori e di riferimento che permetteva di trovare un equilibrio, talvolta ispido, per sopportare condizioni di vita se non pessime, di sicuro peggiori di quelle dei figli della borghesia.
Fa impressione rileggere oggi il mondo descritto da Dostoevskij nel 1873 in quel capolavoro intitolato «I demoni». Nella Russia di fine ’800 un’idea malata – il nichilismo – era riuscita a coagulare un’atmosfera di tenebre mai squarciata, coalizzando delinquenti comuni, sbandati ai confini della legalità, emarginati sociali, studenti espulsi dalla scuola. Tra il 1900 e il 1917 seminò il terrore in mezza Europa. «Taglia la lingua a Cicerone, cava gli occhi a Copernico, prendi a sassate Shakespeare», in attesa «di provocare la fine del mondo domani mattina, preferibilmente alle 10,25», dice uno dei protagonisti del romanzo.
Allo stesso modo, nella sua deriva più radicale e delirante, l’islam raccoglie la disperazione e la frustrazione dei giovani delle banlieues perché fornisce loro un alibi (la colpa del proprio fallimento è degli altri) e uno strumento terribile per sovvertire l’ordine costituito: la lotta armata terroristica.
È vero, a Parigi si uccide in nome di Dio, ma non è tutta e solo colpa della religione. Non ci sono più le fabbriche, gli operai sono in via d’estinzione, ma nel ventre molle della Francia si annida una polveriera sociale. Qualcuno inizia a chiamarla lotta di classe 2.0.
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