L'Editoriale
Venerdì 12 Febbraio 2016
Francesco e l’abbraccio
atteso da mille anni
Si incontrano a Cuba, perché lì non c’è la memoria dei conflitti religiosi che hanno lacerato l’Europa. Non è solo una coincidenza quella che permette il grande abbraccio atteso da mille anni. È una scelta precisa alla quale si è arrivati con ragionamenti e mediazioni diplomatiche e religiose di altissimo livello.
Ed è il risultato della cocciutaggine di due uomini che hanno deciso di mettere da parte le lacerazioni teologiche per unirsi nella pratica, perché la situazione del mondo di oggi, la globalizzazione del terrore e dell’economia che uccide, la crisi che schianta valori, ha bisogno di mostrare concretamente l’unità.
È un grande segno, che mancava. Non bastavano l’abbraccio e l’inchino del Papa in Turchia davanti a Bartolomeo, il Patriarca di Costantinopoli, primo inter pares con un primato di onore tra gli ortodossi. Occorreva quello con il Patriarca di Mosca e tutte le Russie, l’uomo a capo di 200 milioni di ortodossi nel mondo, uomo di grande carisma, capace di fare la differenza nell’immaginario collettivo. Per la Santa Sede è l’ultimo tassello mancante della sua diplomazia che oggi si trasfigura nella geopolitica della misericordia di Papa Francesco. Anzi, il penultimo, perché c’è ancora Pechino, la Cina, quel traguardo da tagliare nella corsa iniziata secoli fa dal gesuita Matteo Ricci.
Bergoglio non ha mai posto condizioni a Kirill e lasciato che fosse lui a trovare le ragioni per diventare interlocutore del suo magistero, primo patriarca russo della storia con il quale non parlare di distanza, ancorché nella sala di un aeroporto. Il merito va a Kirill, enfant prodige della Chiesa ortodossa moscovita, che in sette anni da Patriarca e prima negli anni di «ministro degli esteri» del Patriarcato, ha cambiato la sua Chiesa e soprattutto la sua percezione di sé. C’è una storia dietro l’incontro che ne ha impedito finora il realizzarsi. E non è solo quella delle accuse di proselitismo dopo la caduta dell’Urss con l’apertura delle diocesi cattoliche in Russia o la questione dei cattolici ucraini di rito bizantino.
È una questione interna alla grande Russia. Prima gli zar, poi la rivoluzione, poi il Pcus, poi la divisione tra progressisti e conservatori. Con Kirill il patriarcato di Mosca ha ritrovato quella autorità, e quel coraggio, di sentirsi interlocutore. E la Santa Sede ha saputo aspettare questo momento. Certamente il magistero di Bergoglio ha avuto un ruolo. Ma anche prima con Benedetto ci si era andati vicini e sempre per merito di Kirill. Il Patriarca ha preso in mano la sua Chiesa, ha rivoluzionato la sua struttura interna, ha dato spazio ai giovani preti che ha mandato a studiare a Londra e Roma, ha raggruppato le diocesi, ha messo i suoi uomini al vertice del Santo Sinodo, il «Comitato centrale» della Chiesa russa. Oggi su 380 vescovi ortodossi russi, oltre la metà sono stati nominati da Kirill. E ha scelto Cuba, isola cattolica, perché lì anche loro hanno beneficiato delle aperture di Fidel Castro sul piano religioso dopo la storica prima visita di Karol Wojtyla.
I russi considerano Cuba una sorta di loro Paese cristiano. I primi sono arrivati in fuga dalla rivoluzione d’Ottobre, quando l’isola era una ricca colonia spagnola. Fino al 1958 la Messa si celebrava a casa di un ex colonnello zarista. Poi si fece una colletta per costruire una chiesa. I primi pope erano greci. Fino alla rivoluzione del lìder maximo, che la chiuse. La visita di Giovanni Paolo II cambiò le cose, agganciò la modernità. E l’attuale grande cattedrale ortodossa venne costruita con la mediazione di Kirill con le autorità dell’isola. Nell’abbraccio di questa sera tutto ciò non va dimenticato.
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