L'Editoriale
Domenica 21 Maggio 2017
Formazione e selezione
per lo Stato da cambiare
Durante il suo primo Viaggio in Italia Goethe giunge a Napoli nel marzo 1787. La sera del 12, a cena si discute delle riforme politiche e amministrative che un valoroso gruppo di filosofi e giuristi napoletani sta introducendo nell’ordinamento del Regno borbonico. Una nobildonna si rivolge con candore al poeta, affermando di aver ammonito Filangieri per quanto stavano facendo: «Se fate delle nuove leggi, ci procurate nuove preoccupazioni: dovremo trovare il modo di trasgredire anche quelle». L’aneddoto, nel suo intrinseco cinismo, ha una morale chiarissima: i cambiamenti nelle istituzioni incontrano sempre resistenze.
Venerdì scorso il Consiglio dei ministri su proposta del ministro Marianna Madia ha varato un decreto legislativo con il quale si tenta di dare maggiore funzionalità al sistema amministrativo. La valutazione è il perno di tutta l’impalcatura. Sul piano teorico l’idea non fa una grinza, salvo che su tale versante si era incamminato anche l’allora ministro Brunetta, con l’approvazione di una legge che ha avuto effetti disastrosi per la sua assurda macchinosità. Le norme sui licenziamenti sono giuste, ma esigono assunzione di responsabilità da parte dei dirigenti. Per questa ragione sarebbe il caso di puntare di più su un obiettivo di medio termine in grado di cambiare realmente le logiche interne agli apparati: una severa e obiettiva selezione dei dirigenti. Alla quale accomunare una formazione (iniziale e continua) non soltanto giuridica, ma aperta alle altre conoscenze indispensabili per operare in apparati chiamati a svolgere compiti di primaria importanza per la società. Valga un solo esempio. Il ministro Franceschini ha dato un grande impulso alla valorizzazione dei beni culturali, nominando alcuni nuovi direttori alla testa di importanti musei e siti archeologici. Per far ciò, ha dovuto ricorrere a persone provenienti dall’estero. Segno che in quel ministero non si era allevato un nucleo di dirigenti all’altezza. È triste, ma doveroso riconoscerlo. Nell’amministrazione italiana i dirigenti non sono troppi, ma sono distribuiti in modo irrazionale: gli uffici centrali spesso traboccano di dirigenti e in quelli periferici esistono vuoti enormi. Inoltre, la scelta per le posizioni di vertice è sovente discutibile, poiché la politica mette lo zampino dove non dovrebbe, intervenendo oltre il lecito su nomine e promozioni. Selezione rigorosa e formazione di elevata qualità sono le uniche armi per dare un volto nuovo alla dirigenza pubblica. L’obiettivo è raggiungibile soltanto se verranno vinte le resistenze esistenti attraverso un’opera di moralizzazione che investa politici, sindacalisti e dirigenti.
All’inizio del suo mandato di governo Renzi aveva definito la modernizzazione dell’amministrazione la «madre di tutte le riforme». Il percorso - come era facile prevedere - non si è rivelato facile. Norme tortuose e abborracciate, con l’ipertrofia tipica dei legislatori di questa stagione politica, hanno fatto arenare la riforma, incappata anche in censure della Corte Costituzionale. Di qui l’obbligo del governo Gentiloni di riprendere il cammino. Se il livello qualitativo delle pubbliche amministrazioni non migliora, il Paese non sarà mai abbastanza competitivo. Si tratta di una precondizione, affinché - nel processo di integrazione europea a «più velocità» - l’Italia non sia il fanalino di coda. La scommessa riguarda tutti. Il mondo dell’impresa - che deve fare i conti con la concorrenza di mercato - necessita di norme che non intralcino le attività produttive con adempimenti superflui; i cittadini hanno il diritto di non essere oppressi da norme inutilmente complicate; i funzionari devono garantire qualità nel loro lavoro senza doversi misurare con leggi astruse o inapplicabili.
Nel mondo pubblico operano circa tre milioni di persone. La gran parte di esse è capace, stimabile e lavora con dedizione e spirito di servizio. Occorre che i pubblici dipendenti migliori siano adeguatamente valorizzati. Ciò, di per sé, incentiverà nel tempo l’ingresso dei giovani più volenterosi e preparati. Di questo ha bisogno l’amministrazione, più che di un cumulo di norme che cambiano a ogni mutar di governo.
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