Fine vita, in gioco
la dignità umana

Questa settimana ci dovrebbe essere l’intervento in commissione Sanità della presidente Emilia Grazia De Biasi (Pd) sul disegno di legge sul fine vita già approvato alla Camera e ora sotto i riflettori del Senato. Il condizionale è d’obbligo perché la complessa situazione politica e i circa 3.000 emendamenti proposti sembrano orientare verso un nulla di fatto su una normativa complessa e molto controversa. Perché questo testo non convince? Innanzitutto perché parte da una visione antropologica fortemente individualistica che trova nel principio di autodeterminazione non solo una giusta affermazione della libertà di scelta, se accettare o rifiutare una determinata terapia, ma la possibilità di disporre anticipatamente della propria morte, costringendo il medico ad osservare le volontà espresse in un tempo di «buona» salute.

Il fatto che l’obiezione di coscienza dei medici o infermieri non sia contemplata apre inevitabilmente a contenziosi legali qualora il medico decidesse in scienza e coscienza che la situazione clinica non consente di eseguire ciò che il paziente ha chiesto.

La Costituzione italiana all’articolo 2 parla di diritti di libertà e doveri di solidarietà, due principi che devono essere coniugati sapientemente per evitare che una buona parte di cittadini siano indotti a pensare che sia meglio morire, piuttosto che affidarsi allo Stato che non è in grado di darti l’assistenza necessaria a cui avresti invece diritto.

Che società avremo se smarriamo il significato più profondo dell’aver cura dei più deboli? Una legge che pur indirettamente sostiene che esistano condizioni di vita, che il soggetto stesso o chi lo rappresenta, possono giudicare indegne di essere vissute per loro insufficiente qualità e per lo stato di dipendenza che comportano rischia di far passare l’idea dell’eutanasia come «premio», «terapia» o «buona morte» senza pensare alle conseguenze in termini di dignità della vita di malati, anziani e disabili. I più critici paventano il pericolo che di fronte alla morte per denutrizione o disidratazione si chieda di mettere fine alla propria vita in modo più veloce e indolore con una sostanza letale, nonostante l’eutanasia e il suicidio assistito siano vietati da questo testo di legge.

Non è poi stata prevista l’istituzione di un registro nazionale delle Disposizioni anticipate di trattamento, né un luogo per la loro conservazione, in modo che gli operatori sanitari possano trovarle e leggerle. La Camera ha invece deciso di affidare le Dat al singolo che può consegnarle agli 8.000 registri comunali, sovrapposti ai 20 possibili registri regionali e al caos che ne verrà.

Ma senza paventare quello che potrebbe succedere con l’eventuale approvazione di questa legge, perché non cominciare ad attuare le indicazioni della legge 38 del 2010 sugli hospice e cure palliative dove già si indicava la proporzionalità delle cure, un’adeguata terapia del dolore fino alla sedazione con il consenso del paziente e si richiamava il medico a evitare qualsiasi accanimento terapeutico?

Inoltre i nostri politici dovrebbero chiedersi urgentemente cosa fare per un Paese che vede 11 milioni di italiani rinunciare a cure necessarie per mancanza di risorse finanziarie. A come diminuire i tempi di attesa per interventi chirurgici e esami diagnostici. A come supportare migliaia di famiglie, che senza aiuti dallo Stato, assistono ogni giorno un loro congiunto. Le leggi possono essere migliorate, ma preoccupiamoci anzitutto di porre le condizioni perché nessuno debba chiedere la morte anche se la sua vita può sembrare un peso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA