Fine vita e le variabili
che la legge non conosce

Mettere regole al fine vita è un compito arduo. Se ne è avuta un’altra riprova ieri, quando con 240 voti a favore la Camera ha approvato un emendamento alla legge sul Testamento biologico, proposto da Mario Marazziti, presidente della commissione Affari sociali. L’articolo introdotto dice che «nel caso di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati». In sostanza si va verso un divieto di accanimento terapeutico. Colpisce nel testo dell’emendamento quel verbo «deve». In pratica si mette il medico di fronte ad un obbligo, in una situazione che nella realtà non è però circoscrivibile con precisione: cosa significa ad esempio quel «a breve termine»?

È possibile equiparare percorsi di malattie che sono uno diverso dall’altro? «Cercare di imbrigliare tutte le innumerevoli variabili di questi passaggi attraverso le varie fasi della malattia e dalla vita alla morte in un testo di legge è problema arduo, soprattutto se affrontato con un piglio ideologico che tende a semplificare quel che semplice non è», hanno scritto Paolo Rossini e Roberto Bernabei, rispettivamente neurologo e geriatra, due giorni fa su «Avvenire».

Difficile dar loro torto, comunque la si pensi. La vita ha una sua drammatica complessità e il legislatore in questo modo più che affrontare i problemi, cerca di eluderli e di saltarli a pie’ pari. Alla fine però i problemi restano, anche se si illude di aver dato alla coscienza collettiva risposte che la tranquillizzano. Così non è, ovviamente, perché quel «deve» inserito nell’articolo di legge non sarà mai in grado di liberare la coscienza di un medico che in determinate situazioni può dubitare della legittimità morale di quell’obbligo. Quello di ieri è solo un passo discutibile dentro un percorso che però è viziato da un difetto a monte. Anzi, più che da un difetto, da una pretesa.

La pretesa è quella di definire regole stando lontani dalle prime linee in cui si vivono i problemi. Quindi senza avere coscienza di quelle infinite variabili che costringerebbero ad essere molto più cauti nel fissare paletti rigidi. Questa pretesa ha poi una conseguenza indiretta più grave: quella di mettere in crisi la relazione chiave in ogni percorso di cura, quello tra il paziente e il medico. «Questa alleanza è una delle molle più formidabili a spingere gli operatori di salute a cercare sempre il meglio in un rapporto che nulla ha a che vedere con rigide formule di presa in carico (e di “scarico”)», hanno scritto sempre i due professori Rossini e Bernabei nel loro intervento. «Un rapporto che purtroppo viene stravolto se si impone il rispetto di una volontà che può potenzialmente rinunciare alla salvaguardia della salute e della vita».

In quel verbo «deve» inserito nel testo dell’articolo approvato ieri, si intravvede proprio la pretesa di trasformare quello che si è sempre configurato come un prezioso rapporto di fiducia, in una mera e deresponsabilizzata esecuzione di regole. C’è invece un momento nella vita delle persone – ed è quel momento di cui la legge si vuole occupare – in cui, in primo luogo per i pazienti, ma poi anche per i loro familiari, la relazione di fiducia con il medico si impone qualcosa di umanamente non sostituibile. Un momento in cui, sulla base di dati seriamente acquisiti, si deve arrivare a motivare e quindi a fare delle scelte. Pensare di fissare a priori con regole quelle scelte è una forzatura che non ci sta, comunque la si pensi riguardo al fine vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA