Finalmente uno stop
ai diktat da cortile

Per l’Ilva di Taranto c’è ancora speranza. Venerdì 29 il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda ha dato notizia, sui social media, che anche la Regione Puglia, dopo il Comune di Taranto, ha ritirato la richiesta di sospensiva presentata al Tar. La richiesta era connessa al ricorso degli enti locali contro il decreto ministeriale per il risanamento dell’area industriale tarantina che dovrà essere effettuato da ArcelorMittal, il gruppo maggior produttore di acciaio al mondo che ha vinto la gara in giugno per arrivare a Taranto.

Ora che la richiesta di sospensiva evita lo spegnimento dell’impianto, dice Calenda, ci si può mettere a lavorare «insieme» per ritirare anche il ricorso, cioè l’ostacolo che gli enti locali avevano frapposto giudicando il piano di risanamento non soddisfacente, soprattutto sulla tempistica.

Tutti hanno presente crediamo, lo scabroso scambio di accuse e veri e propri insulti tra il ministro Calenda e il governatore Emiliano (meno con il sindaco) dietro il quale c’era – e c’è, ancora, per certi versi – il rischio per l’ennesima volta da quando questa vicenda è precipitata, che l’Ilva chiuda. Noi stiamo parlando della più grande acciaieria europea, di circa 20mila posti di lavoro, indotto compreso, collocati in un Meridione che stagna ancora nel pozzo della crisi economica e in altre zone strategiche d’Italia come Genova, e di un investitore che ha messo sul piatto un investimento di 2,3 miliardi di euro ma che vuole garanzie e certezze giuridiche. A convincere Emiliano al passo indietro deve essere stata la fermezza di Calenda – un ministro che molti già vedono come leader di uno schieramento riformista - insieme alla pressione di Paolo Gentiloni.

E di sicuro ha pesato anche la linea dei sindacati, sempre più preoccupati per la sorte dello stabilimento e dei posti di lavoro. Perché se saltasse l’accordo con gli indiani, l’Ilva, già ridimensionata dalle persistenti iniziative giudiziarie della procura locale, il costo di questo fallimento lo pagherebbero tutti i contribuenti italiani e l’Italia sarebbe esclusa da un settore essenziale come quello della produzione di acciaio. Non ce lo possiamo permettere. D’altra parte, i tarantini vanno sottratti al dilemma atroce: o lavoro o salute cui nessuno dovrebbe mai dare una risposta. Sin dai tempi del governo Monti la linea a Roma è stata: mandiamo avanti l’azienda e contemporaneamente risaniamola, perché se l’azienda chiude, non ci sono nemmeno i soldi per bonificarne le spoglie. A Taranto invece molti puntavano e puntano tuttora a chiudere la fabbrica, «e poi si vede». Per contrastare questa linea, prima Palazzo Chigi a forza di decreti ha duellato coi giudici, adesso se la deve vedere con sindaci e governatori che evidentemente hanno anche, Emiliano in particolare, dei loro obiettivi politici.

Ma la domanda è semplice: è possibile che una questione così generale e strategica non debba avere un decisore nazionale? Un conto è il dialogo con tutti, un conto è chi alla fine tira le somme. E questo non può che essere il governo. Ora Calenda – un ministro energico che ha saputo battere i pugni sul tavolo con tutti, compresi gli indiani dell’acciaio e molti altri, imprenditori e governi stranieri - è riuscito a far chinare la testa ad Emiliano e ha riaperto la speranza che a Taranto si possa avere la salute e il benessere insieme. Ma sarebbe il caso, riformando il Titolo V della Costituzione, di cambiare e chiarire i rapporti tra governo nazionale e governi regionali (e comuni). Anche per evitare che degeneri il sindrome di Nimby (Not in my back yard, non nel mio cortile) che dalla Val Susa alla Puglia è già sin troppo diffusa e sta bloccando opere pubbliche e investimenti di cui l’Italia ha disperato bisogno.

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