Sanremo, nostalgia
di un’Italia felice

Sui giornali Sanremo è un disastro. Canzoni brutte, vallette insapori, inventiva zero. Non c’è un comico che faccia ridere. Per l’Auditel invece è un trionfo.

È il solito scollamento tra il Paese reale e il Paese intellettuale: quando alla gente piace qualcosa di assolutamente normale questo distacco diventa un abisso, incolmabile. Ascolti a 10,5 milioni per Carlo Conti, con picchi sopra i 12: roba da fare invidia alle migliori partite della Nazionale. «Apparentemente una buona notizia». «Conti ride. La canzone italiana un po’ meno» è il tono dei commenti.

Sui social network, che ormai sono il lato oscuro della psiche collettiva, gli «haters» (quelli che odiano di professione) si scatenano: «Stasera ci saranno dei giudici nuovi. Mi auguro quelli di Norimberga». «Datemi le goccine che ha preso Arisa. Subito».

Eppure bisogna ammettere che la pietanza servita a Sanremo da Carlo Conti funziona. Non è pernice, ma piace. «Questo festival ha già un vincitore» dice il direttore generale della Rai Gubitosi ed è certamente lui, il «medioman», il pippobaudo ribollito alla fiorentina, il bravo presentatore sempre perfettamente slampadato che di mestiere non fa il regista di salotti intellettuali ma confeziona programmi-caramella al retrogusto di nostalgia. Amico di Panariello e di Pieraccioni, non di Umberto Eco: tutta roba un po’ troppo pop, roba da trattoria.

Siani e Pintus sono stati massacrati: perché, Crozza aveva fatto una bella figura all’Ariston? Samantha Cristoforetti se va da Fazio al sabato sera è cool, se si collega con Conti al giovedì (in differita: «Ovvove!») diventa subito «una prezzemolina». Emma e Arisa non vanno bene perché non fanno le vallette di mestiere: e Belen o Brigitte Nielsen, Megan Gale e Manuela Arcuri cos’erano, fredde professioniste della cartellina? Lui, Carlo Conti, si è messo lo smoking ma ha anche lavorato sodo, perché in questo festival tutto (tranne Arisa) sembra funzionare come si deve.

Fa una scaletta e rispetta i tempi, anzi, arriva persino in anticipo. Parla male l’inglese, non sa fare le interviste, è vero, cede spesso e soprattutto volentieri al suo vizio per le commemorazioni postume (Mango, Pino Daniele, Gaber, Jannacci, Faletti: un’overdose) ma sa tenere il palco perfettamente, ha lo spettacolo e i ritmi in pugno, para le gaffe altrui. Spende meno di quello che fa guadagnare alla Rai (16 milioni contro 20) e il pubblico è addirittura ringiovanito, i 15/24enni sono più degli ultra 65enni.

Il segreto? Forse proprio quel suo abbassare i toni. Per Alessandra Comazzi ha imbroccato «una formula adatta ai tempi: l’adrenalina, il “famolo strano” a tutti i costi non necessariamente premia». In anni di continue tempeste gli italiani cercano tranquillità, rassicurazioni, vogliono riparare per qualche sera in un porto sicuro in cui non pensare all’aumento delle bollette ma ai sentimenti, e lui gliel’ha dato. Ma forse il vero segreto di questo Sanremo lo ha detto lui stesso: «Allargare la forbice del pubblico», scodellare «una macedonia dai vari sapori». Tenere dentro tutti, voci di ragazzi in prima serata e Spandau Ballet redivivi a tarda notte, nostalgici di Albano&Romina e twittatori folli, orfani di Canzonissima e amanti del progressive rock, famiglie con 16 figli e drag queen, don Mazzi e turbanti.

Lo hanno definito il «festival democristiano senza la Dc» ma assomiglia di più al Pd di Renzi, un’Italia in movimento moderata, che vive il mondo di oggi ma un po’ anche rimpiange quegli anni ’80 e ’90 in cui è stata (più) felice. O per dirla meglio, con Davide Bennato: su quel palco dell’Ariston «una tradizione molto forte sta negoziando con un cambiamento altrettanto profondo».

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