L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 11 Agosto 2015
Fermare il mondo
non serve a nulla
Che rapporto c’è tra un accordo di natura industriale (ripetiamo: industriale) come la vendita di Italcementi, e il fenomeno della migrazione di massa? Apparentemente nessuno. Cosa può infatti unire i barconi che lasciano terre di dittatura e miseria con le ovattate stanze degli advisor che hanno preparato in totale riservatezza un’operazione tanto importante? In realtà, dietro l’una e l’altra cosa c’è lo stesso denominatore comune: il mondo globale che modifica equilibri geopolitici e sociali ma anche economici ed industriali, e c’è chi lo capisce per disperazione, e chi ci ragiona per la severa logica dei numeri e delle dimensioni.
La natura umana è istintivamente conservatrice, e le rivoluzioni le promuovono le èlite. Per questo, la prima reazione che suscitano fenomeni come questi è di resistenza, ma il realismo dovrebbe insegnare – a secolo della globalizzazione già molto avanzato – che il come si stava meglio quando si stava peggio è senza senso. La parola globalizzazione è stata usata solo dal 1990, ma oggi sono passati ben 25 anni. E può piacerci o non piacerci, ma è un fatto indipendente dai nostri gusti. Contrastare con i sentimenti, le nostalgie, i pregiudizi o gli opportunismi politici fenomeni come l’immigrazione di massa o l’unione dell’Europa, è come fermare l’acqua del mare con le mani.
Si possono ottenere voti, ma si spostano solo in avanti i problemi, mentre è urgente un’azione vera e nuova sia per l’Europa che per i migranti: è anzi il nodo per valutare una classe politica altrimenti alla deriva. A tutti noi piacerebbe una Italcementi eternamente in linea con 150 anni di storia, molto bergamasca nelle sue radici, anche se ci siamo forse accorti in ritardo che da via Camozzi partivano già almeno dal 1992 i fili di una rete che copre tutti i continenti.
E, nel quadro dei grandi cambiamenti in corso, è pericolosa, anche se spiegabile, la voglia di un mondo che non c’è più, solo perchè, quando c’era, offriva apparenti certezze. Tutto era più netto, i buoni e i cattivi ci sembrava di poterli distinguerli più facilmente. Gli africani stavano «a casa loro» e gli albanesi riuscivamo a farli tornare indietro dopo che si erano presentati in 20 mila, tutti insieme, al porto di Bari, annunciando qualcosa che non capivamo. In Libia, in Iraq c’erano dittature personali con le quali si potevano fare affari più facilmente, mentre oggi ci sono le dittature teocratiche medioevali che si alimentano anch’esse di populismo, solo un po’ diverso dal nostro. Andando più indietro, cosa di meglio del comunismo paradiso dei lavoratori (tanto noi avevamo l’ombrello della Nato) e dell’Italia del debito pubblico e delle svalutazioni competitive? Peccato che le generazioni su cui abbiamo scaricato i problemi siano quelle di oggi, con la disoccupazione giovanile che va verso il 50%, 4 milioni di poveri e il rebus insoluto delle spending review.
Ma se un’azienda privata, con una famiglia alla guida, fa un’operazione dolorosa e la spiega come una scelta per un futuro degno di un grande passato, sarà davvero il caso di riflettere non solo con rispetto ma anche con intelligenza. E soprattutto applicare, se possibile, la stessa logica lungimirante a scelte di carattere pubblico imposte dai medesimi fenomeni della globalità.
Ora che il populismo è arrivato addirittura negli Stati Uniti, ora che Regno Unito e Francia sperimentano a Calais e a Dover le stesse convulsioni che hanno generato in Italia gli sbarchi di Lampedusa, occorre un bagno di realismo. È facile far discorsi contro l’Europa e l’euro, demonizzare l’immigrazione, che quando è così di massa, per definizione, non è più neppure clandestina. Ma così facendo, comprando tempo a costi sempre più alti, rischiamo di perderne il senso. Già nel 700, Adam Smith, il liberale padre degli economisti, diceva che gli uomini d’affari erano senza Patria, nel senso che erano globali prima della globalizzazione. Ma l’uomo contemporaneo, una Patria, da affiancare alla propria, ce l’ha: è il mondo, ora più piccolo, da quando abbiamo saputo che ce n’è almeno un altro simile a migliaia di anni luce.
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