Fake news,
frontiera elettorale

Una delle novità di questa campagna elettorale in vista delle politiche di marzo 2018 è costituita dalle cosiddette «fake news», le false notizie che ammorbano la politica e la società, alimentando spesso e volentieri quell’odio già molto diffuso e praticato nel nostro Paese e che è alla base della demagogia e del populismo. Più che di notizie false, si dovrebbe forse parlare di propaganda, anzi di «digital propaganda», quell’attività pilotata attraverso Internet tesa a inventare notizie, o a distorcerle, per alimentare una credenza già molto diffusa, come già faceva il ministro della Propaganda di Hitler Goebbels a suo tempo (in questo senso nulla di nuovo sotto il sole).

Una delle ultime porcherie è quella che gira su Facebook con Laura Boldrini, Maria Elena Boschi e altri esponenti del Centrosinistra fotografati in prima fila nel corso di inesistenti funerali pubblici del boss mafioso Totò Riina. A diffonderlo un sito di fake news contiguo ai Cinque Stelle, anche se non ufficiale. Le fake news sono stati uno dei leit motiv della Leopolda numero 8, la grande kermesse renziana che si svolge nella vecchia stazione ferroviaria di Firenze: il tavolo 42 dedicato all’argomento ha registrato il tutto esaurito.

Anche il sindaco del capoluogo toscano Dario Nardella ha citato la notizia messa in giro sul suo conto riguardante la sua mancata puntualità che gli ha fatto perdere un aereo, mentre l’aereo in realtà era stato semplicemente cancellato.

Ma il fatto più eclatante, ampiamente citato alla Leopolda da molti dirigenti del Pd saliti sul palco, compreso il segretario, riguarda un articolo uscito sul New York Times, basato in buona parte sulle informazioni di Andrea Stroppa, un giovane consulente informatico di Marco Carrai, imprenditore amico di Renzi. Carrai ha scoperto come le notizie virali di alcuni siti di simpatizzanti per il Movimento Cinque Stelle e quello della Lega Nord di Salvini hanno lo stesso codice Google Adsense e Analitics. In pratica i siti hanno le stesse «tubature», la stessa targa: un codice che permette di verificare l’andamento del traffico del sito, di tracciare il profilo di chi clicca e soprattutto di indirizzare la pubblicità gestita da Google. Il Movimento Cinque Stelle ha smentito che si trattasse di siti legati a quello della Casaleggio e associati e lo stesso candidato premier grillino Di Maio si è detto preoccupato per la diffusione delle fake news.

Anche gli interessati diretti si sono affrettati a smentire citando una serie di coincidenze, ma la cosa resta inquietante perché il New York Times ipotizza anche un legame con la Russia e dunque un’interferenza dei siti filo-Putin nella politica italiana, così come sarebbe avvenuto anche negli Usa, in Spagna e in Francia con Marine Le Pen. Va anche detto, per par condicio, che anche il Pd è stato accusato almeno in un paio di occasioni di trarre vantaggio da molti siti di propaganda che pullulano su Facebook e su altri social network.

Fatto sta che la battaglia è appena cominciata perché in questa campagna elettorale i social media faranno la parte del leone: il 35 per cento degli italiani dichiara di informarsi su Facebook secondo l’Istat. Renzi dal palco della Leopolda ha annunciato un rapporto periodico sulle false notizie, il cosiddetto «fact checking» che sta diventando sempre di più la nuova frontiera del giornalismo, come aveva preconizzato Umberto Eco. Chi se non i giornalisti dovrebbe frenare questo gioco sporco? Questo genere di guerra informatica e digitale potrà condizionare in maniera decisiva il risultato delle prossime elezioni. E a ben vedere in gioco c’è tutta l’autorevolezza del giornalismo italiano.

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