Europa e potere
Germania alle corde

L’entrata in scena del nuovo governo italiano ha cambiato la geometria del potere in Europa. Si è posto in essere un asse Trump-Salvini che sta mettendo alle corde la Germania. E questo senza che gli interessati abbiano brigato in tal senso. È solo il risultato di spinte politiche che vengono dal basso e di cui il presidente americano e il segretario della Lega si sono fatti interpreti. Sono le reazioni dei perdenti della globalizzazione. Si trovano coalizzati senza saperlo solo perché hanno un nemico in comune: il modello economico tedesco. Con la crisi finanziaria del 2008 gli equilibri sono cambiati e sono emersi due grandi vincitori: la Cina e la Germania.

L’America vede smantellata la sua manifattura, l’Italia assiste impotente alla chiusura di imprese, alla perdita di posti di lavoro, alla colonizzazione della propria economia. Senza che i vincitori si pongano il problema di dosare il proprio prepotere. L’export come arma di dominio ha rafforzato negli altri partner la convinzione di essere sotto scacco. Il limite del 6% previsto dalle regole europee per il surplus dell´export è stato abbondantemente superato senza che mai a Berlino e a Bruxelles alcuno si sia posto il problema. In una cornice in cui il banco vince sempre gli accordi in essere diventano una gabbia. Da qui la denuncia dei trattati internazionali e degli accordi commerciali.

Sono 150 i miliardi che ogni anno la Germania incassa dall’interscambio di merci con gli Stati Uniti. La minaccia di Donald Trump di porre un dazio del 25% all’import di automobili si spiega con questi dati. Il senso è: se uno Stato punta tutte le sue carte sull’export per rendere gli altri Paesi dipendenti dalle proprie merci va da sé che a quel punto è a rischio la sovranità dello Stato. Gli accordi diventano di colpo obsoleti e a dettare il gioco sono le leggi della politica.

È quello che sta accadendo anche in Italia. I parametri di Maastricht sono stati concepiti per un’economia in crescita e quindi a tutela della stabilità finanziaria. In caso di crisi diventano una costrizione ed un impedimento. E tali sono stati vissuti dai governi italiani in carica a partire dal 2009. Per la Germania Trump rappresenta quello che per l’Italia è lo spread, il differenziale dei titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi. Una spina nel fianco. Una restrizione delle esportazioni verso il mercato americano vale secondo l’Ifo-Institut di Monaco di Baviera una perdita secca di 5 miliardi. Senza contare le ricadute sulla catena produttiva esterna dei fornitori. Nell’industria più di un posto di lavoro su due dipende dall’export. Un intero sistema produttivo votato agli umori dei clienti. I quali se sono in Europa sono indotti dalla comune moneta a comprare made in Germany ma al di fuori dell’Eurozona risentono degli umori della politica. Vedi l’Arabia Saudita che affianca Trump e minaccia a sua volta di boicottare le merci tedesche. Avere un retroterra sicuro è vitale per l’economia tedesca.

Se l’euro dovesse saltare per la Germania il danno economico sarebbe grande ma ancor più gravi sarebbero i danni politici. A quel punto Berlino non parlerebbe più a nome dell’Europa ma di una nazione di 80 milioni di abitanti. Un trascurabile puntino nella geografia dei grandi continenti. Ecco perché l’occasione per il neo governo italiano è ghiotta. Il rilancio italiano è diventato un interesse nazionale tedesco. Si tratta da parte italiana di mostrare quello che i tedeschi sinora non hanno mostrato di avere, il senso del limite. Il che vuol dire: oltre questo debito non si può andare.

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