Election day, possibile frattura
su politica economica ed estera

La campagna elettorale appena chiusa non sembra proprio destinata a brillare negli annali della storia repubblicana. Generosa di promesse mirabolanti quanto povera di progetti credibili. Animata da partiti propensi a far leva sulle debolezze degli avversari più che a farsi forti della bontà delle proprie proposte. Dotata di leader non proprio trascinanti, vuoi perché logorati (Berlusconi o Renzi), vuoi perché improvvisati (Di Maio o Grasso), vuoi perché provvisti di un profilo più da agitatori che da statisti (Salvini o la Meloni).

Fatto sta che la lunga, pasticciata chiamata alle armi lanciata dai partiti ha lasciato l’opinione pubblica in uno stato di irresolutezza, oscillante tra la perplessità e lo scetticismo. Ne è venuta così una situazione paradossale: il voto di oggi può segnare una svolta importante nella vita del Paese eppure gli elettori, invece di sentirsi chiamati in causa e di appassionarsi per una scelta che può essere decisiva, si sono mostrati restii a mobilitarsi.

La stampa non ha messo abbastanza in risalto che il voto di oggi può segnare una rottura di continuità su almeno due aspetti cruciali: in politica economica e in politica estera. Non ci riferiamo né alla prospensione alla spesa facile o agli umori euroscettici serpeggianti nella maggior parte delle formazioni. Pensiamo al sovranismo e al populismo. Questi reclamano barriere protettive non solo per frenare l’immigrazione ma anche per frapporre una difesa alle nostre imprese dalle minacce della globalizzazione. Dimenticano che la nostra è un’economia poggiante proprio sull’esportazione e che, a maggior ragione con un mercato ormai planetario, rinchiudersi è un po’ morire. Non meno rilevante è il tema geopolitico. Da quando gli Usa, specie con Donald Trump, hanno preso le distanze dai loro storici alleati europei, serpeggia nell’opinione pubblica nazionale una strana voglia di farla pagare all’America. Per questo si rivolge lo sguardo ad oriente operando un’apertura di credito allo storico antagonista dell’Occidente: la Russia di Putin. In altri tempi questioni del genere avrebbero infuocato il confronto politico. Ben contenti di essere smentiti dalle urne, non è quello che abbiamo visto in questi mesi. Nessun comizio, diffusa incertezza, forte richiamo alla diserzione delle urne.

Il paradosso è ancora più eclatante se si pone mente al fatto che i più restii a mobilitarsi sono i più informati. L’astensionismo è sempre stata la tentazione propria di chi alla politica riservava uno sguardo disattento, convinto che si trattasse di una «cosa sporca», «che già tanto non cambia mai niente», «che sono tutti uguali». Insomma, era appannaggio dell’antipolitica. Oggi per questa opinione pubblica c’è addirittura un affollamento di imprenditori politici che fanno dell’invettiva alla Casta la loro stessa ragion dell’essere. Viceversa, a provare un disorientamento, una difficoltà a riconoscersi in qualche soggetto politico, che sappia dare voce alle proprie lagnanze è quel settore dell’elettorato che nell’Italia repubblicana che ha sempre costituito la base d’appoggio dei partiti governativi. Pronti a ricrederci se le urne ci smentiranno per l’allarme lanciato sulla minaccia di un astensionismo in crescita, questa ci è sembrata la nota dominante di questa campagna elettorale. Si sbagliano anche i sondaggisti. Si possono sbagliare a maggior ragione i commentatori.

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