Economia globale
Sbagliato chiudersi

Evocare il populismo non vuol dire parlare di fenomeni sociologici un po’ accademici o al massimo di argomenti buoni per strappare audience nelle risse televisive sull’euro. Il populismo è una questione maledettamente seria, con precise ripercussioni politiche, e questo lo vedono tutti, specie quelli che ci vogliono campare, ma anche economiche, e qui forse molti si distraggono. Dal populismo al protezionismo il passo è brevissimo. Così come dal protezionismo alla conflittualità il tragitto è altrettanto rapido. Per questione di dazi sono guerre, fin dai tempi dell’Impero romano.

Mentre il populismo sembra ancora di moda (ma dall’Olanda alla Francia qualche segnale contrario sta pur venendo), il protezionismo è quanto di più anacronistico e autolesionista si possa immaginare, nel mondo di oggi molto più che nel mondo di ieri, in Italia più che altrove.

Dire «America first» suona bene e raccoglie l’entusiastica adesione dei «padroni a casa nostra», indifferenti al fatto che se poi lo dicono tutti, alla fine, a casa nostra, comandano i dazi altrui, le perdite di quota di mercato, la scomparsa di beni che ci sembra oggi normale acquistare a buon prezzo.

Il protezionismo è davvero una brutta bestia, che abbiamo già conosciuto persino nella sua versione perversa, l’autarchia, prima di godere dei vantaggi del libero mercato, e ce n’è voluto, perché ricordiamo bene i tempi in cui non si vendevano automobili giapponesi in Italia perché la Fiat doveva essere appunto protetta. Poi, l’Europa, con le sue salutari scomodità, ha aperto i mercati, la Fiat ha rischiato definitivamente la pelle, ma a un certo punto è andata a salvare operai americani, diventando più piccola in Italia ma più grande nel mondo. La globalizzazione ha funzionato, e oggi tra i dati sorprendenti del nostro export c’è, nel primo bimestre 2017, un +31,2 per cento di vendita di autovetture.

L’onda lunga è arrivata fino al tentativo di concludere il trattato di libero scambio tra la nostra concorrenziale Europa e il continente al di là dell’Atlantico. Si è realizzata in extremis col Canada del liberale Trudeau, ma si è bloccata davanti ai ruggiti arancioni del nuovo capo Usa, considerato un benefattore, in accoppiata con quel campione di libertà che sta a Mosca, secondo i sovranisti nostrani.

I quali ultimi, specie quelli di origine padana, chiudono gli occhi sull’unico vero miracolo economico contemporaneo, quello dei prodigi del nostro export lombardo, veneto e piemontese.E l’export vive se si basa sulla reciprocità. Non possiamo dire «Italia first» e pretendere che gli altri ci dicano prego s’accomodi quando andiamo a vendergli qualcosa.

I numeri sono chiari. Il nostro export complessivo è cresciuto del 10,6%, più del Regno Unito (10,2%), della Germania (+9,8%) e dell’ansimante Francia (+1,6%). Ci batte solo la Spagna, ma nel manifatturiero nel 2016 abbiamo fatto un surplus commerciale di 86,1 miliardi, secondi in Europa dietro ad una Germania che viola le regole europee tenendosi ben 318 miliardi di avanzo.

Dunque, stiamo ben attenti quando sventoliamo soluzioni semplici a problemi complessi (questa è una definizione di populismo), perché il mondo globale non consente scorciatoie da talk tv (una volta si sarebbe detto da comizio). Secondo il Fondo monetario internazionale, il più negativo tra gli effetti della globalizzazione, e cioè l’aumento della diseguaglianza nei Paesi avanzati (compensato dall’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone altrove) è dovuto soprattutto al progresso tecnologico, che riduce il lavoro. Bisognerà rifletterci, perché forse sta qui il vero nodo del futuro del mondo, ma certo la risposta non è quella di chiudersi dentro le mura di casa, alzando nuovi muri.

E tanto che ci siamo, non facciamoci tentare dalla seduzione delle svalutazioni competitive dei nostalgici della lira. Abbiamo appena visto che le nostre imprese non hanno bisogno di questi aiutini, vere e proprie droghe economiche. Il problema del mercato interno, quello che non esporta, è se mai di accedere a più coraggiose riforme in settori chiave come la pubblica amministrazione, la scuola, la burocrazia, le liberalizzazioni delle professioni e delle corporazioni.

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