L'Editoriale / Bergamo Città
Venerdì 15 Maggio 2015
È ancora facile
morire a Kabul
Sono passati quasi 14 anni da quando, per reazione all’attentato delle Torri gemelli pianificato da Osama Bin Laden in Afghanistan, gli americani invasero il Paese (con l’aiuto determinante della cosiddetta Alleanza del Nord, che faceva capo al «signore della guerra» Masud, assassinato dagli jihadisti), rovesciarono il regime dei talebani e instaurarono a Kabul un governo dalle parvenze democratiche. Sembrava tutto avviato per il meglio, tanto che gli Stati Uniti, distratti dalla guerra contro Saddam, lasciarono i nuovi governanti quasi soli.
Ma la sconfitta dei talebani era solo una illusione, e presto non solo Washington dovette tornare a rinforzare il suo contingente, ma chiese anche l’aiuto massiccio della Nato, che si tradusse nella presenza di 12 mila inglesi, 4.500 tedeschi, 4.000 italiani e perfino di lituani e polacchi. Per cinque anni queste ingenti forze hanno cercato, nello stesso tempo, di combattere i talebani e rimuoverli dalle province di confine con il Pakistan in cui erano rimasti una presenza dominante, ma anche di addestrare un nuovo esercito e una nuova polizia afghane, capaci di prendere il loro posto e di difendersi da soli contro l’assalto della jihad. Obama, ansioso di mettere fine a una guerra diventata sempre più impopolare, fissò addirittura il ritiro delle ultime unità combattenti per il 2015, e gli alleati furono ben felici di seguirlo. Presto, tuttavia, si rese conto che gli afghani non erano ancora in grado di operare da soli, rinviò il ritiro di un anno e riuscì a negoziare con il nuovo presidente Ashraf Ghani Ahmadzai, un tecnico proveniente dalla Banca mondiale succeduto al riottoso Karzai, una presenza permanente. Comunque, la missione occidentale in Afghanistan è giunta alla sua fase conclusiva, lasciando dietro di sé una situazione non molto cambiata dal momento del suo inizio, come dimostra ampiamente anche l’attentato suicida nel centro di Kabul in cui l’altro giorno ha perso la vita il nostro Alessandro Abati.
Questo attacco, unito ai tanti che lo hanno preceduto, rafforzerà sicuramente l’opinione che l’operazione Afghanistan, costata anche all’Italia alcune decine di morti e più di un miliardo di euro, è stata inutile, che appena ce ne andremo i talebani si riprenderanno Kabul e le conquiste democratiche di questi anni, riguardanti soprattutto lo status delle donne, se ne andranno in fumo. Il Paese sarà sempre più quel che è stato anche ultimamente, il principale fornitore della materia prima per la fabbricazione dell’eroina e il paradiso della corruzione. Per fortuna ciò è vero soltanto in parte. Nessuno si illude che una nazione che, sotto molti aspetti, è ancora indietro di secoli possa trasformarsi in una Svizzera asiatica. Ma, nonostante molti errori occidentali, specie nei rapporti con la popolazione, in questi 14 anni alcune cose sono cambiate in meglio: l’ultima elezione presidenziale è stata un successo, sono state costruite infrastrutture basilari, il sistema scolastico ha fatto grandi progressi e da qualche settimana – incredibile dictu – l’aviazione afghana ha perfino una top-gun in gonnella. La parte occidentale che fa capo a Herat, affidata al contingente italiano, è quasi pacificata.
Il problema principale con cui Ghani, una volta rimasto solo, dovrà misurarsi, è l’inaffidabilità delle sue forze di sicurezza, che nonostante l’intenso addestramento cui sono state sottoposte non sono ancora all’altezza dei loro compiti, mancano di una sufficiente forza aerea di sostegno e, soprattutto, sono pesantemente infiltrate dai talebani. Diversi attentati – forse anche quello dell’altro giorno – sono avvenuti con la loro complicità, e con la partenza degli occidentali la situazione è destinata a peggiorare. Tuttavia, prolungare la missione Isef, per giunta con forze ridotte, non servirebbe a nulla. Chi deciderà di rimanere nell’Afghanistan «afghanizzato» lo farà a suo rischio e pericolo.
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