Due sinistre in cerca
del binario comune

Il Pd, nella bufera e in pieno ribasso di consensi, riparte da Milano, la città di Pisapia, cercando di uscire dall’isolamento e giocando all’attacco: «Parlo con tutti, ma non mi fermo davanti a nessuno», dice Renzi alla convention dei circoli democrat, cercando di tenere insieme alleanze e leadership. Determinato, ma lasciando una porta aperta. E l’ex sindaco arancione, quasi in diretta, replica da piazza degli Apostoli a Roma, teatro della vittoria prodiana nel 2006 e oggi luogo di raccolta dell’area anti renziana, in questi termini: «Da soli non si va da alcuna parte».

Esplicito, ma non ultimativo. La sfida fra le due sinistre (meglio: fra centrosinistra e sinistra-centro) è solo all’inizio da qui al voto della prossima primavera, cioè a fine legislatura, la conclusione auspicata da Mattarella. Ieri, per entrambi, è stato il giorno dell’orgoglio: da una parte un nuovo inizio, dall’altra l’esordio di una sinistra che ancora non c’è nella sua difficile sintesi, ma che promette di esserci. Due mondi che dopo essersi annusati e poi divisi, prima amichevoli e quindi concorrenti e adesso alternativi, potrebbero anche essere condannati a stare insieme o a dividersi secondo la miglior tradizione dei fratelli-coltelli e della logica sanguinosa del «nemico più vicino». Dipende dalla legge elettorale, se ce ne sarà una nuova, e dalla disponibilità a sottoscrivere almeno una moratoria, ammesso che ci sia spazio per la diplomazia. Senza la terza via di una soluzione medicabile, il rischio sarebbe il Vietnam, un gioco che sfugge di mano. Quando l’ex invincibile, che dal 41% delle europee ha perso nei tre anni successivi tutte le amministrative ed è stato messo sotto scacco dalla sconfitta al referendum costituzionale, si sente accerchiato, ridiventa Renzi medesimo: nel bene e nel male, aduso al rilancio.

Rilancio che, stavolta centrato sul futuro del Paese, passa attraverso un rinnovato riformismo, senza nostalgie per il motivo del contendere: la pur aurea stagione dell’Ulivo-Unione, che però non ha retto alla prova del governo e che ha nei neo estimatori di Prodi una parte dei sabotatori di quella serie storica e un pezzo dei 101 franchi tiratori del Professore sulla via del Quirinale. Ulivo che non solo per Renzi, ma anche per padri nobili come Veltroni pur severo verso il leader democrat, significherebbe tornare a un’Italia che non c’è più, a un format che non è nelle corde di un Paese a tre poli e a cinque culture politiche (due centrodestra, due sinistre, un movimento anti Casta). La questione del Sistema Paese è la questione del Pd: la prospettiva, l’identità e il perimetro del principale soggetto della sinistra, dal quale non può prescindere il campo aperto di Pisapia, in virtù semplicemente di un successo preventivo immaginato dalla rispettabilità conquistata dall’avvocato milanese. Neppure sembra proponibile la fantasia di un centrosinistra senza Renzi, l’idea di un secondo tempo del congresso del Pd, per lasciar fermo il suo segretario un giro dalla corsa a Palazzo Chigi, dopo aver ottenuto il 70% dei consensi da circa due milioni di elettori. Senza per questo dimenticare che il Pd è nato per unire, per superare il concetto stesso di centrosinistra e per essere non un partito centrista ma centrale nel confronto largo con la società: l’affondo di Franceschini contro Renzi ci sta tutto e si colloca in questa dimensione culturale.

L’incalzare competitivo del progressismo civico di Pisapia, pur alla guida di un universo composito e difficile da disciplinare, potrebbe essere un incentivo per il Pd a riprendersi la connessione sentimentale con il Paese. Cambiando priorità e rivedendo gli schemi concettuali: passando dalla stagione esclusiva delle riforme istituzionali ed elettorali, e delle alleanze, pur strategiche, a realtà più vicine alla gente comune come il lavoro e la sicurezza. Del resto la fluidità politica è stabilmente volatile e, sull’onda delle Amministrative, il sondaggio Ipsos pubblicato dal «Corriere» conferma la flessione del Pd e dei grillini, illustra l’ormai noto risveglio dell’elettorato di centrodestra in via di sorpasso sul centrosinistra e il balzo della Lega al 15%. Il ritorno di Berlusconi, pur in un centrodestra non più a egemonia personale, impone allo stesso Renzi di correggere recenti tentazioni e i suoi effetti cumulativi: lo sfondamento al centro non s’è compiuto e le comunicazioni con le sinistre si sono fin qui interrotte. Ma c’è anche un presidente della Repubblica che nel frattempo ricorda i meriti del riformismo dei governi Renzi e Gentiloni, grazie ai quali l’Italia sta agganciando la ripresa europea e curando le ferite sociali: un motivo in più per investire sulle riforme e sulla stabilità.

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