L'Editoriale
Giovedì 19 Aprile 2018
Due programmi
per non cambiare
Su quale versione del programma elettorale dei 5Stelle sta coscienziosamente lavorando il prof. Giacinto Della Cananea, incaricato dal capo politico Di Maio di trovare differenze e affinità con Lega e Pd, con i quali i grillini pensano indifferentemente di potersi alleare, perché tanto sinistra e destra per loro pari sono? Di programmi infatti ce ne sono almeno due, secondo le ricerche de «Il Foglio»: quello prima del 4 marzo e quello dopo le elezioni, che sul web ha sostituito il primo, pur solennemente votato dagli iscritti. Uno per vincere a colpi di reddito di cittadinanza, contestazioni contro Europa e Euro, posizioni filorusse. L’altro per andare a Palazzo Chigi, moderato, europeista. Uno che descriveva la Nato come causa di destabilizzazione e l’altro che consente di prendere per buono l’intervento in Siria. Uno che prometteva 780 euro a tutti, l’altro che stanzia due miliardi per far funzionare i centri dell’impiego.
Già il lavoro del prof. Della Cananea era abbastanza complicato, in mancanza di una indicazione politica su ciò che si vuole (Intesa o rottura? Chiusura o apertura di forni?). Così è diventata davvero una missione impossibile, perché l’equazione era con due incognite, ora sono diventate tre. Ma il problema non è tecnico, è appunto politico: che cosa sta tentando di fare, il Movimento, ora che è a un passo dal potere, ma non ci può arrivare da solo e ha bisogno di compromessi (la parola inciucio ormai è sparita)?
Se si tratta di mettere in soffitta la carica rivoluzionaria e diventare un partito tradizionale, anche il prof. Della Cananea si troverebbe a suo agio, trattandosi di un esponente dell’odiato establishement. Ma se allora l’intenzione è quella di rimettere il tonno nella scatoletta, i primi ad essere informati dovrebbero essere gli elettori 5Stelle, in particolare quelli strappati ai vecchi partiti rimasti attardati a parlare di compatibilità finanziarie, Europa, mercati e ciarpame vario, e dunque battuti innanzitutto dalla noia.
A quelli, il «cambiamento» era piaciuto e l’avevano votato un po’ per convinzione un po’ per punire chi apprezzava il rigore dei conti e non cacciava via sui due piedi mezzo milione di clandestini. Non è bello raccontargli ora che – causa cattivo tempo – la rivoluzione è rinviata, un po’ come l’indipendenza della Padania, che resta solo negli Statuti. Per il resto, conta il Ppe. Chi, non solo in Italia, ha preso sul serio i populismi, resta quanto meno sconcertato, di fronte a queste giravolte. Perché il modello disegnato in questi anni anche in Italia – democrazia diretta, sovranismo, protezionismo, debito, svalutazione della moneta, assistenzialismo – è roba discutibile ma seria, e un popolo può anche sceglierlo, ultimo esempio quello ungherese. Ma il machiavellismo è un metodo, non la motivazione di una presa in giro.
Non si può passare dalla denuncia del «male assoluto» all’accettazione di qualunque accordo, e sbaglierebbe il prof. Della Cananea a dare un avallo tecnico ad un fatto politico. Insomma, avvertiteci quando il Palazzo d’Inverno sarà davvero conquistato e verranno mantenute le promesse. Così, a metà strada, si sta poco bene. Già non ci sono più le mezze stagioni e non si può più dire «quasi goal». Ora c’è la Var , la verità salta a galla. Se il vaffa resta solo nei pensieri reconditi dell’ala massimalista, che però abita ormai tra gli stucchi e i lussi della presidenza della Camera, e abbiamo solo scherzato perché in fondo destra e sinistra non erano così male, lo deve dire comunque il capo politico, non un professore. Parafrasando i furbetti del quartierino, non si può fare la rivoluzione con il riformismo degli altri. Allora meglio l’originale.
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