L'Editoriale
Sabato 05 Agosto 2017
Diplomazia in Libia
Tempi lunghi
L’invio di navi militari italiane nelle acque territoriali libiche sta avvenendo senza fanfare, come è bene che sia. Nel Paese nostro dirimpettaio non ci sono facili successi da sbandierare. Le parole vanno misurate quando si entra nella sovranità altrui, specie se è una nostra ex colonia. Regole d’ingaggio e perimetro dell’operazione ne delimitano i confini, come ha spiegato l’ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone: non un blocco navale, non una missione militare ma di assistenza alle autorità libiche, le stesse che l’hanno richiesta. Un supporto tecnico per arginare i flussi di migranti e l’economia criminale che ruota attorno al commercio di essere umani. In definitiva, l’operazione serve a rafforzare la sovranità libica nella prospettiva di rientrare dal caos e di stabilizzare il Paese. Quello che appare come un nuovo capitolo nel coinvolgimento italiano ha però un lato critico: non c’è alcuna garanzia che questi diseredati alla deriva, una volta riconsegnati ai libici, siano tutelati dal diritto umanitario internazionale. Non è realistico, per quanto sarebbe necessario e auspicabile, pensare che l’Ue (imperfetta e latitante com’è sul versante mediterraneo) possa in così poco tempo allestire centri di raccolta.
L’altro aspetto riguarda l’impatto sulla devastazione libica, tuttora un non-Stato, dominato dalle milizie tribali e in conflitto fra il governo di Tripoli, del premier Al-Sarraj e riconosciuto dalla comunità internazionale, e la coalizione della Cirenaica guidata dal generale Haftar. L’uomo forte di Tobruk recita la sua parte: benché le minacce all’Italia siano ritenute scarsamente credibili, svelano comunque l’intenzione di presentare la controparte di Tripoli come un governo fantoccio, al guinzaglio degli italiani.
Anche per non urtare la sensibilità libica, il governo Gentiloni deve muoversi con prudenza. In una stagione in cui i Paesi occidentali ridefiniscono i propri interessi nazionali e le strategie globali, l’Italia, che nel Mediterraneo ha un patrimonio di equilibrio da difendere, si gioca la propria credibilità interna e internazionale. Sulla gestione dei flussi migratori (una questione di sicurezza ed economica, oltre ormai la dimensione prevalentemente umanitaria) si consumerà la prossima campagna elettorale: dimostrare che si può dare una risposta razionale e corretta alla crisi umanitaria dei profughi e contro la «retorica dell’invasione» è un obiettivo da inseguire.
Il sentiero, però, è stretto e scontiamo una certa solitudine non solo a livello europeo. La relazione speciale con Obama non c’è più e la Libia non è nell’agenda di Trump (forse è meglio così). L’attivismo della Francia di Macron, che ha legittimato Haftar dandogli un vantaggio competitivo, è in linea con la fase espansiva del Paese più impegnato in Africa, che guarda al Sahel come ad un neo protettorato e che storicamente è in competizione con l’Italia nello scacchiere mediterraneo: il cortile di casa di entrambi.
Ma la sostanza della diplomazia è quella che sta sotto la superficie e che non si vede. C’è nell’aria, e pure su qualche giornale autorevole, la richiesta di azioni energiche, magari militari. Il vice ministro degli Esteri, Mario Giro, peraltro buon conoscitore del continente africano, ha comunque valide ragioni quando scrive che una tradizione di politica estera «senza nemici», a prima vista evanescente, «ha sempre pagato nel tempo».
Così è stato sin dai tempi dell’Eni di Mattei, di Fanfani, Moro, Andreotti e Craxi. In gergo si chiama «soft power»: la prevalenza, cioè, di un’azione politico-diplomatica, sul terreno civile e culturale. Come tutti, siamo in Libia per tutelare i nostri interessi nazionali (migranti, petrolio, lotta al terrorismo, ricostruzione istituzionale), ma nel quadro del processo dell’Onu con l’obiettivo della stabilità di uno Stato fin qui fallito. La nostra «diplomazia del deserto» non rientra nello schema vincitori-vinti, ma è orientata dalla consapevolezza che nessuno, da solo, può risolvere la situazione: senza fughe in avanti o battaglie di retroguardia.
Il ruolo negoziale non è scoppiettante e non emoziona. La ricostruzione deve coinvolgere tutti i principali attori, senza un’esclusiva: Tripoli ma anche Tobruk, le milizie e i clan tribali. L’orizzonte, se si potrà raggiungere, è il compromesso fra le parti in causa e la nostra diplomazia sa meglio di altre che da queste parti le sfumature di grigio contano e pesano. L’aver spostato la frontiera europea a sud, nell’area frontaliera del Sahel, la porta d’accesso alla Libia, coinvolgendo tribù e sindaci, ha esposto l’Italia oltre il programmato, allargando però il campo da gioco inclusivo. L’Italia, in prima linea su questo fronte, le scelte responsabili le ha fatte. Il rischio c’è, il ritorno dell’investimento non sarà immediato. Serve tempo, sempre che l’evoluzione sul terreno lo conceda.
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