L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 11 Luglio 2018
Destino comune
In acqua per la vita
L’elemento che unisce i loro destini è l’acqua. L’acqua delle piogge abbondanti cadute che hanno invaso la grotta di Tham Luang in Thailandia. E poi l’acqua del Mediterraneo che deve essere attraversata per l’ultima tappa di un lungo viaggio verso la speranza di una nuova vita. Da una parte ci sono i 12 ragazzini della squadra di calcio che con il loro allenatore hanno vissuto un’avventura da incubo a partire da quel 23 giugno quando si sono trovati nella trappola delle acque che chiudevano ogni via di uscita dalla grotta.
Dall’altra c’è quel numero imprecisato di migranti che a flusso continuo da anni continuano ad affrontare l’incognita della traversata di quel braccio di mare su imbarcazioni improbabili. Tutto il mondo ha tirato un sospiro di sollievo ieri, quando anche gli ultimi quattro ragazzini e il loro allenatore sono spuntati fuori dalla grotta e dalle acque nere che l’avevano invasa. Una vicenda a lieto fine che ha reso tutti più contenti e anche più buoni (il perdono al coach è l’aspetto visibile di questa buona disponibilità d’animo collettiva). Sull’altro fronte le cose invece continuano ad andare nella direzione di una drammatica incertezza. Secondo calcoli molto verosimili, dall’inizio del 2018 sarebbero ormai mille i migranti inghiottiti dalle acque del Mediterraneo. Il che vuole dire una media di circa cinque persone annegate al giorno. Tra quei mille ci sono probabilmente tanti coetanei dei ragazzini thailandesi, di cui però non sapremo mai né il nome, né le storie. Anche loro hanno avuto a che fare con le insidie dell’acqua, ma al di là di questo, hanno avuto un destino del tutto diverso. Nessuno ha pianto per loro. Nessun riflettore si è acceso in mezzo al mare. Nessun sub si è mobilitato per andare in loro soccorso.
Ovviamente non vogliamo dire che è stata sbagliata l’attenzione straordinaria scattata nei confronti dei poveri prigionieri della grotta di Tham Luang. Noi italiani, che siamo passati per il caso di Alfredino, sappiamo cosa significhi assistere in diretta all’avventura di un bambino che resta appeso tra la morte e la vita. Sappiamo cosa significhi misurarsi con l’impotenza di fronte a una situazione in cui si sente anche il respiro di chi è rimasto intrappolato. Quindi il pathos è stato più che spiegabile. E non può essere neppure demonizzato a causa della differente sensibilità e attenzione con cui si guarda (o meglio, non si guarda) alla tragedia che si consuma nelle altre acque, quelle così più vicine a casa nostra. Piuttosto le due situazioni possono chiamarci a un’altra riflessione. Quello che ci ha tenuto avvinti alla vicenda di Tham Luang è stata l’attesa di poter apprendere la notizia dei ragazzini liberati. È stata l’attesa di vedere la vita vincere e riemergere da quelle acque nere e cupe. La vita che vince è qualcosa che ci fa amare di più la vita stessa, che ce ne fa apprezzare il valore e la bellezza: una sensazione che non vale solo per i protagonisti di quell’avventura, ma vale anche per noi che siamo stati testimoni lontani. In un certo senso è una vicenda che fa amare di più la vita nostra e di chi ci sta attorno.
Ebbene l’augurio è quello che una sensazione simile possa essere sempre più spesso sperimentata davanti a giovani vite che riescono a scampare dai pericoli del nostro mare. Giovani vite che si mostrano a noi con quegli sguardi indimenticabili, in cui la gratitudine cancella quasi sempre i segni dello spavento e della paura. Sono un altro uguale, bellissimo inno alla vita. Non abbiamo visto gli sguardi dei ragazzini di Tham Luang una volta liberati, ma possiamo esser certi che sono del tutto simili agli sguardi dei loro coetanei che alla fine riescono a toccare terra. Sono sguardi che vorremmo avere sempre più spesso avere di fronte, simbolo della vita che vince.
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