Desideri frustrati
e angoli di pace

La crisi continua e sembra non finire mai. Ci si consola dicendo che prima o poi finirà, ma è durata molto, troppo, e ha finito per rendere stabili alcuni «stati d’animo» collettivi: gli stati d’animo della crisi. Domina, soprattutto, uno che si potrebbe chiamare, con una terminologia vagamente morale, la mortificazione dei desideri.

La crisi ha costretto a dire molti «no» a molte abitudini consolidate nei bei tempi del benessere. Tutti i dati confermano: si compra di meno, si viaggia di meno, si fanno meno vacanze, si legge di meno, si lavora di meno… Sono tanti «meno» rispetto ai «più» di prima.

Gli analisti forniscono le loro cifre, impietosamente, mentre gli altri, noi tutti, si sono talmente abituati a queste deprimenti litanie che ormai non impressionano più. Solo che quei dati e quelle litanie significano, messi insieme, una situazione unica e universale: viviamo nella costante situazione di volere molto e di ottenere poco, di coltivare molti desideri e di poterne realizzare pochissimi. Continuiamo, infatti, a portarci appresso numerosi desideri che sono il risultato delle abitudini contratte nei bei tempi che furono: siamo figli del benessere, infatti.

Ma i figli del benessere sono passati, in brevissimo tempo, dall’abbondanza di prima alla penuria di adesso, sostenuti e illusi, oltretutto, dalla psicologia ottimista tipica del benessere che ci assicurava che la guerra contro la crisi sarebbe risultata rapidamente vittoriosa. Invece la guerra non è ancora vittoriosa e dura da anni. E non si sa ancora quando finirà. Tutto questo significa, appunto, una continua, snervante mortificazione dei desideri. Diciamolo in altri termini: siamo una massa sconfinata di scontenti che devono accontentarsi, per forza e di poco.

La distanza fra i desideri e la realtà, e la scontentezza che ne deriva cercano continuamente le loro valvole di sfogo. La vita politica – in questi giorni, soprattutto, con le grandi manovre per le elezioni del capo dello Stato – resta un teatro dove quella scontentezza va in scena. Questo è vistosamente evidente sul palco dove giostrano gli attori e dove è diventata sempre più rara la passione per i problemi e dove i problemi si sono trasformati in pretesti per rinfocolare le passioni. Alcuni partiti sono i partiti della scontentezza. Grillo e Salvini dovrebbero fare qualche novena perché la crisi continui e continui la scontentezza perché se finisse la critica e finisse la scontentezza finirebbero anche loro.

Ma delusione e scontentezza non regnano soltanto sul palco della politica ma anche nella platea, dappertutto. Un punto di vista privilegiato sono i siti internet. Provate a leggere un qualsiasi articolo di un giornale on line e provate a dare un’occhiata ai commenti dei lettori. È qualcosa di asfissiante. Non si ragiona quasi mai. Si aggredisce quasi sempre. Si aggrediscono i politici, ovviamente, ma si aggredisce chi aggredisce. È un’interminabile partita di boxe, tutti sullo stesso ring, tutti che menano e prendono legnate, nella impossibilità di seguire delle regole. È la sconfinata saga dei delusi. Più si è delusi e più si è aggressivi.

Parlo con una anziana, quasi novantenne. Mi dice che passa una consistente «paghetta» mensile ai nipoti, tanto voraci quando insoddisfatti: «Non gli basta mai», mi dice. «Io invece, mi accontento di così poco». Si ferma, sorride, «E sono contenta», aggiunge. Non si accorge neppure del gioco di parole: si accontenta ed è contenta. Il contrario speculare dei nipoti: non si accontentano e sono scontenti.

È proprio un altro mondo. I rapporti «lunghi», quelli politici e sociali, in rete e non, sono, appunto il vastissimo ring senza regole, dove i desideri mortificati hanno creato un esercito di scontenti. I rapporti corti, quelli delle famiglie e delle amicizie, possono essere – non lo sono sempre, ma possono essere – un angolo in pace, dove diventa perfino ragionevole accontentarsi ed essere contenti.

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