Democrazia a rischio?
È la solita solfa

Alla conclusione imminente dell’iter parlamentare della riforma costituzionale e elettorale, un grido di dolore si sta levando dalle cattedre di alcuni costituzionalisti, politologi, opinionisti: stiamo arrivando alle soglie di una democrazia cesarista. A questa ci sta portando il dittatorello di Firenze, con la sua riforma della Costituzione e del sistema elettorale. Il fine di questa bieca manovra? Consegnarci nelle mani dei mercati globali.

Controprova? Il Jobs act, la defiscalizzazione dei contributi alle scuole paritarie, la trasformazione del lavoro in merce... Colpa, questa, non di secoli di capitalismo, ma di Renzi! Poiché non può fare tutto da solo, chi sono i complici? Semplice: il popolo bue. Secondo un vecchio tic ideologico laico-giacobino, gli italiani sono antropologicamente predisposti al cesarismo da una secolare tradizione religiosa, che tiene insieme «il corpo cattolico-elettorale», all’ombra di un’unica Fede e un unico Capo. Sì, c’è stato l’intermezzo della Costituzione del 1948, scritta per paura del fascismo. Ma ora è dimenticata, la nuova classe dirigente può indulgere alla tendenza spontanea e profonda del popolo, che ha nostalgia di Cesare e del Papa Re. A che cosa servono queste caricature, che si vendono come seriose analisi scientifiche, per le quali il decidere di decidere significa aspirare ipso facto a instaurare una dittatura? Vi si legge in filigrana la difesa dell’irresponsabilità e del menefreghismo delle élite politico-intellettuali. Vi si legge la loro autobiografia. La decisione sta alla fine di una catena di atti: conoscere in profondità i termini di un problema, vagliare le soluzioni possibili e alternative, assumersi delle responsabilità, scegliere un’alternativa. Quali che siano gli ambiti, gli anelli della catena sono sempre gli stessi. Quello centrale, ponte tra la conoscenza e la prassi, è quello della responsabilità. «Rispondere di», «rispondere a» significa farsi carico, assumersi dei rischi, «I care». In ambito pubblico, i rischi di sbagliare sono elevati e la pena è spietata. Paolo VI disse che la politica è la forma più alta di carità, proprio perché la politica implica un’assunzione solitaria e generosa di responsabilità personale.

Viceversa il nostro sistema politico, giuridico e amministrativo è una catena di irresponsabilità istituzionalmente garantite. Premia la fuga, l’indecisione, gli alibi, i rinvii. Il sistema indecisionale ha retto per anni, perché, scaricava i pesi sull’italica arte di arrangiarsi e, pertanto, sul bilancio pubblico. Ora le risorse sono finite, mentre le sfide globali non danno tregua. Questa è l’emergenza del Paese. A quanto pare, un ceto intellettuale aduso a intoccabili rendite di posizione non vede l’emergenza e continua a cullarsi nell’illusione della Costituzione più bella del mondo. Ma per chi non gode di posto fisso e di rendite, la musica cambia. E se il Paese non cambia, i giovani cambiano Paese o tentano di cambiare il Paese. Basta andare oltre le Alpi. Il modello politico-istituzionale, che Renzi propone e che da noi indigna gruppi di intellettuali/opinionisti, è alla base del funzionamento delle democrazie/monarchie europee: Spagna, Francia, Germania, Olanda, Inghilterra: un governo scelto dagli elettori, che decide e che viene deciso dagli elettori.

Non è il paradiso terrestre, si intende, ma neppure la palude immobile e putrescente dell’Italia di oggi. Resta una domanda: come spiegare la cecità di parecchi intellettuali? Questa sì, c’entra con la tradizione nazionale. Da sempre il ceto intellettuale in Italia è un ceto di corte. Formatisi alla corte chiassosa e doviziosa della Prima e Seconda Repubblica, abituati a portare il turibolo alle oligarchie di partito, ora ne rimpiangono il prestigio perduto, i riti sociali e «le buone cose di pessimo gusto».

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