Da Sarajevo alla Siria
L’inferno sulla terra

«Chi non crede nell’inferno venga in Siria» aveva detto solo qualche giorno fa il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco. Ai nostri occhi l’inferno è tornato a materializzarsi martedì scorso, nelle immagini abominevoli dei corpi rantolanti di adulti e bambini colpiti dai bombardamenti a base di gas tossici a Khan Shaykhun, cittadina siriana sotto il controllo dei ribelli islamisti al regime di Assad. Le 72 vittime dell’eccidio (20 erano minori) ampliano numeri intollerabili: in sei anni di conflitto 300 mila morti, 5 milioni di profughi e 8 milioni di sfollati interni, ovvero più della metà della popolazione.

Ma l’inferno in terra in queste ore si è rivisto anche in Congo, Paese africano fuori dai radar dei media occidentali dilaniato da un conflitto esploso nel 1998: decine di vittime nella regione del Kasai, migliaia di sfollati e la scoperta di 13 fosse comuni.

Proprio oggi ricorre il 25° anniversario dell’inizio dell’assedio di Sarajevo, il più lungo (dal 6 aprile 1992 al 29 febbraio 1996) nella storia bellica moderna dopo quello di Stalingrado. Commentando il 60° compleanno dei Trattati di Roma, autorevoli esperti di vicende internazionali e leader politici hanno rimarcato come quegli accordi che diedero il via al processo d’integrazione europea hanno garantito al Vecchio continente un lungo tempo di pace e prosperità. Omettendo però i conflitti nei Balcani. Il lapsus è rivelatore di un’evidenza: per la geografia l’area dove era incardinata la Jugoslavia è Europa, per il sentimento del senso comune e della politica è invece un corpo estraneo. Eppure i Balcani storicamente hanno anticipato le vicende che poi avrebbero riguardato la vita di noi europei occidentali: proprio a Sarajevo si verificò l’innesco della Prima guerra mondiale (con l’uccisione dell’arciduca erede al trono di Austria-Ungheria Francesco Ferdinando); quelle terre sono da sempre un esperimento di convivenza tra comunità diverse, di strumentalizzazione delle religioni, di migrazioni e d’integrazione, di confronto con l’islam e con le sue frange radicalizzate.

Martedì scorso dopo l’ennesimo eccidio siriano si sono levati giusti appelli per un intervento finalmente deciso della comunità internazionale per porre fine al conflitto. Ma va risolta un’ambiguità: la comunità internazionale è già pesantemente presente nella guerra in Siria, definita infatti «per procura». In quel Paese martoriato si confrontano gli interessi divergenti delle potenze regionali (l’Iran a sostegno degli sciiti, al vertice a Damasco con la versione alawita di quella branca dell’islam; l’Arabia Saudita con i sunniti, sostenuti anche dalla Turchia) e di quelle mondiali (la Russia con Assad, gli Stati Uniti contro ma ora in riposizionamento da quando il loro presidente è Donald Trump).

Il conflitto in Congo è definito anche «Prima guerra mondiale africana» proprio a rimarcare l’intromissione di importanti attori esterni nella contesa, interessati al controllo di territori ricchi di materie prime. E Stati dell’Europa occidentale hanno contribuito ad accelerare la disgregazione sanguinosa della Jugoslavia riconoscendo frettolosamente l’indipendenza dichiarata da repubbliche che la componevano (Slovenia e Croazia) senza aver messo in campo il proprio peso politico, economico e commerciale per congelare la decomposizione spinta da nazionalismi malati e contribuire invece a definire una nuova architettura istituzionale del Paese slavo in disfacimento.

La domanda di un intervento della comunità internazionale per sedare i conflitti va quindi corretta definendo gli obiettivi di quella comunità, l’alternativa fra interessi egemonici e un potere esercitato a servizio di un bene più grande. Le Nazioni Unite nacquero dopo la Seconda guerra mondiale con quest’ultimo intento, perseguito negli stessi anni anche dagli attori politici che hanno permesso la nascita dell’Unione europea. La crisi delle grandi organizzazioni internazionali pensate per ricomporre interessi divergenti e prevenire nuove guerre, deriva dall’aver tradito la loro origine ideale.

Nella Sarajevo sotto assedio era ricorrente ascoltare appelli all’Europa perché fermasse la carneficina (12 mila morti e 60 mila feriti in quasi quattro anni: un abitante su cinque colpito da cecchini o granate). Appelli che non ricevettero risposta, se non in un ordine sparso generatore di nuove divisioni. Eppure oggi le repubbliche ex jugoslave ambiscono ad entrare nella Ue (la Croazia ne è già parte) perché colgono soprattutto i vantaggi, in termini economici e di libertà. Lo scrittore bosniaco Mesa Selimovic (1910-1982) disse: «Tutte le città hanno un cuore, solo Sarajevo ha un’anima». La comunità internazionale oggi deve ritrovare un’anima.

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