Culle vuote, siamo
un paese per vecchi?

Un nuovo calendario con una sola stagione, sempre la stessa: l’inverno. L’ultimo rapporto Istat sulla natalità ci consegna una tendenza che dura ormai dal 2009. Restiamo il Paese delle culle vuote, come attesta il «Bilancio demografico nazionale» Istat sugli indicatori demografici. Qualche numero su questo inverno demografico aiuta a capire. La popolazione italiana al primo gennaio 2017 ammonta a 60 milioni 579 mila residenti, 86 mila unità in meno rispetto all’anno precedente.

La natalità si conferma in calo costante il livello minimo delle nascite del 2015, pari a 486 mila, è superato da quello del 2016 con 474 mila fiocchi rosa e azzurri. I morti sono 608 mila, dopo il picco del 2015 con 648 mila casi, un livello elevato, in linea però con la tendenza all’aumento dovuta all’invecchiamento della popolazione. Naturalmente il saldo naturale (la differenza nati-morti) registra nel 2016 un valore negativo (meno 134 mila): il secondo maggior calo di sempre, superiore soltanto a quello del 2015 (meno 162 mila).

Continua insomma il processo di invecchiamento della popolazione italiana. Il nostro è un primato europeo, perché nei 28 Paesi dell’Unione non c’è nessuno che sta peggio di noi. L’Italia è da anni il Paese per antonomasia delle culle vuote, il più vecchio e raggrinzito del Vecchio Continente, il Paese dove il numero dei nati è soverchiato dal numero di decessi.

In linea teorica, tra qualche generazione, rischiamo di estinguerci. Per avere una popolazione stabile sul piano demografico occorrerebbe un tasso di fertilità di almeno 2,1 figli per donna. Ma la fecondità totale, spiega la nota Istat, scende a 1,34 figli per donna (da 1,35 del 2015), un fenomeno dovuto soprattutto «al calo delle donne in età feconda, per le italiane, e al processo d’invecchiamento per le straniere». Si fanno meno figli e a un’età sempre più avanzata, da «primipare attempate»: l’età media al parto ha raggiunto i 31,7 anni. La cosa ha anche delle implicazioni economiche: guarda caso, la crisi dura dal 2008, proprio l’anno che precede l’inizio della decrescita demografica. Ma uno dei fattori profondi è la mancanza di politiche familiari tese a valorizzare e favorire le nascite.

Se ci guardiamo intorno, scorgeremo sempre più capelli d’argento. L’età media dei residenti, ci dice l’Istat, è di 44,9 anni, corrispondenti a due mesi e mezzo in più rispetto al 2016 e due anni esatti in più rispetto al 2007. Gli italiani di 65 anni e più superano i 13,5 milioni e rappresentano il 22,3 per cento della popolazione totale (11,7 milioni nel 2007, pari al 20,1 per cento). Naturalmente l’invecchiamento della popolazione di per sé è un bene, significa che la sanità, l’alimentazione, l’igiene, la prevenzione, le cure mediche e gli stili di vita sono i migliori del mondo (dopo il Giappone). Lo dimostra il fatto che sono soprattutto gli ultranovantenni a registrare un aumento sensibile: all’inizio di gennaio 2017 sono 727 mila, un numero superiore a quello dei residenti in una grande città come Palermo. Sebbene questo segmento della popolazione rappresenti oggi appena l’1,2 per cento del totale, il suo peso nei confronti della popolazione complessiva è andato aumentando nel tempo: solo 15 anni fa ammontavano a 402 mila e costituivano solo lo 0,7 per cento del totale. Gli ultracentenari sono invece in diminuzione: oltre 17 mila, in calo rispetto ai quasi 19 mila del 2015.

Una diminuzione che si deve, secondo l’Istat, a due fattori specifici: la forte mortalità del 2015, cui segue nel 2016 l’ingresso tra i centenari dei nati nel 1916, una fascia di età con un più basso numero di superstiti rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Gli ultracentenari, comunque, sono complessivamente triplicati negli ultimi 15 anni. Tutto questo porterà anche a una lenta «rivoluzione» del Paese sul piano sociale, dal sistema pensionistico a quello sanitario.

Continua anche a salire il numero di italiani che si trasferiscono all’estero: nel 2016 sono stati 115.000 a fronte di 35.000 rientrati, con un saldo negativo di 80.000 unità, in crescita rispetto all’anno prima (quando era stato di 72.000). Un numero quasi triplicato in sei anni. Siamo un Paese per vecchi, mentre i giovani se ne vanno. Qualcuno vuol fare qualcosa?

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