La Costituzione
senza stabilità

«I giovani sono interessati, forse siamo noi che non siamo in grado di parlare loro. C’è una frattura nel Paese tra istituzioni e persone che probabilmente dipende proprio dalle istituzioni che non sanno più parlare, e non so perché, a chi invece vorrebbe ascoltare». Sono parole pronunciate l’8 marzo scorso da Giorgio Lattanzi, il giorno della sua elezione a presidente della Corte Costituzionale. Il neopresidente ha anche aggiunto: «La Corte ha sentito l’esigenza di uscire dal Palazzo, vuole essere conosciuta e che sia conosciuta la Costituzione e i suoi valori». A colpire di questa dichiarazione sono due cose. Da un lato, un riconoscimento di interesse, particolarmente importante perché proveniente dai giovani, e dall’altro un’esigenza, avvertita come una missione dal presidente appena eletto della Corte, di far conoscere «la Costituzione e i suoi valori».

Ecco, credo che, proprio alla luce di tale esigenza, valga forse la pena di riparlare della genesi della nostra Costituzione e di chiedersi quali furono le ragioni che portarono alla sua approvazione in quella forma, sottolineando gli ideali che l’hanno ispirata, così come gli influssi che ne guidano ancora oggi la sua interpretazione. Mi limiterò a richiamare alcuni punti, quasi a volo d’uccello, convinto come sono che possano aiutare a capire non poche delle difficoltà in cui si trova «impantanato» il dibattito politico di oggi, soprattutto in merito al tema della stabilità governativa.

Ora, l’idea che fosse necessaria una nuova Costituzione fu all’epoca accettata senza contrasti. Già nel 1946, infatti, Arturo Carlo Jemolo, celebre studioso di diritto ecclesiastico e apprezzato storico dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, osservò: «Poiché nei 98 anni che sono ormai trascorsi dall’emanazione dello Statuto Albertino è sorto tutto un nuovo mondo politico, sociale ed economico e particolarmente negli anni ’19 e ’20 sono state formate costituzioni assai più perfette e più rispondenti ai problemi della nostra epoca, ben si comprende come, in Italia, nessuna voce autorevole si sia levata a sostenere che una nuova Costituzione sia superflua e come l’idea di nuova Costituzione sia stata in sé accettata quasi senza contrasti».

Per quanto riguarda invece i motivi ispiratori della Costituzione, è opportuno ricordare le parole che Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti, pronunciò nel celebre discorso tenuto il 26 gennaio 1955 nel salone degli Affreschi della Società umanitaria di Milano. Un discorso importante, perché Calamandrei indicava le fonti della nostra Costituzione, che con una felice e assai pregnante espressione definiva le «grandi voci lontane». Insomma, voci lontane che risuonano in diversi articoli della carta costituzionale: da Mazzini a Cavour, da Cattaneo a Garibaldi e a Cesare Beccaria.

Più di recente Sabino Cassese, noto giurista e Giudice emerito della Corte Costituzionale, in un discorso tenuto in occasione dei 70 anni della Costituzione, ha invitato a interrogarsi soprattutto su ciò che manca nella nostra Costituzione. Un punto, come ho accennato all’inizio, che merita di essere approfondito soprattutto in questo periodo della storia repubblicana. E che emerse già in sede dei lavori preparatori quando la Commissione incaricata, ritenendo che né il tipo di governo presidenziale americano né quello direttoriale svizzero rispondessero alle condizioni della società italiana, optò per un sistema parlamentare, dotato però di «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo per assicurare continuità del Governo».

Un aspetto però che, in concreto, non fu realizzato. Tant’è che sempre Calamandrei, nell’esprimere il voto finale sul testo della Costituzione, osservò «di questo che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto di costituzione non c’è quasi nulla». Basta soltanto ricordare che il Governo in carica è il 64° della Repubblica italiana, il che significa che la durata media dei Governi è stata di poco superiore all’anno. Nei fatti, i presidenti del Consiglio quasi sempre durano in carica per un lasso temporale insufficiente a realizzare i loro programmi.

È alla luce di questa lacuna sui dispositivi istituzionali per assicurare la stabilità dei Governi – che i membri dell’Assemblea costituente lasciarono per evitare, dopo l’esperienza fascista, qualunque rischio di prevaricazioni dell’Esecutivo, facendo affidamento sulla forza stabilizzatrice dei partiti politici – che bisogna prendere le mosse per pensare a ben mirate modifiche della Costituzione (nonché della legge elettorale), senza ovviamente stravolgerla, ma sviluppandone le parti inattuate e disattese, in modo da incanalare l’azione dei partiti. D’altronde, come Calamandrei faceva rilevare in quel discorso del 1955 che ho citato all’inizio, la Costituzione «non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità».

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