L'Editoriale
Sabato 08 Ottobre 2016
Colombia: il Nobel
tra guerra e pace
Referendum, plebisciti, exit poll, consultazioni, sondaggi e crescente disaffezione al voto, possono cambiare la «qualità» della democrazia e il modo di guidare la comunità.
L’avanzamento del populismo e l’uso «dell’algoritmo», come mezzo di democrazia diretta, hanno nutrito il risultato delle seguenti consultazioni popolari: la Brexit sull’uscita inglese dall’Ue, il referendum su pace e guerra in Colombia, il Canton Ticino sul lavoro transfrontaliero, per non parlare del recente passato dove Francia, Olanda e Danimarca non votando sul progetto di costituzione «azzopparono» non poco il processo di costruzione europea. La democrazia crea e risolve i problemi , e quanto sta accadendo può anche colmare un vuoto di partecipazione ma consegna il destino di un Paese ad «incognite» su cui riflettere come quello che sta succedendo in una Colombia smarrita dove alle urne si sono presentati meno del 40% degli aventi diritto. Sull’inaspettato no c’è un precedente che vale la pena ricordare ed è collocato nell’aprile del 2004, quando per far entrare una Cipro riunificata dentro l’Ue, venne sottoposto ad entrambi i lati, greco-ciprioti e turchi, un referendum. Il risultato, che avrebbe determinato il futuro dell’isola sulla base di accordi favorevoli per entrambi, fu negativo, bocciando l’impegno di una riunificazione in termini accettabili e l’entrata integrale di quel territorio nell’Ue.
Cosa è successo? Com’è possibile che un Paese sferzato per più di 52 anni di conflitto armato, non ha voluto convalidare nelle urne un patto difficile raggiunto con una delle guerriglie più poderose che abbia mai visto l’umanità? Tutto nacque da uno scontro tra i due partiti dominanti e oligarchici, liberali e conservatori quando, tra il 1946 e il 1948, Jorge Gaitán ad un passo del potere venne assassinato provocando un periodo di violente proteste conosciute come «Bogotazo», primo atto che ha originato la violenza fino ai giorni nostri. Il progetto più recente, di analogo tentativo, fu avviato dal governo di Andrès Pastrana, nel 2000, che in una zona smilitarizzata della Colombia incontrò il leader Manuel Marulanda soprannominato Tirofijo (tiro preciso): non ne venne fuori nulla. Il presidente statunitense Bill Clinton lanciò il Plan Colombia che alla fine servì al Governo per modernizzare il suo esercito e alla guerriglia per riarmare le sue truppe.
Il presidente Manuel Santos, si è compromesso totalmente per la pace, impegno che ieri gli è valso il premio Nobel, in un momento in cui soffre difficoltà sul piano interno. Inquietante è l’astensione che ha superato il 60%, aggravata dall’uragano Matthew che nella Colombia Caraibica determinò un’astensione pari all’80%. La differenza tra il sì e il no è di soli 60 mila voti e ciò fa sì che, utilizzando una riflessione morotea, nessuno dei due schieramenti ha perso ma nemmeno vinto. È molto facile essere saggi il giorno dopo, essendo pochi quelli che avevano previsto questo risultato. Anche i vincitori del no guidati dall’ex presidente Alvaro Uribe, di cui Santos era il ministro della Difesa, si trovano in difficoltà a dover gestire questo risultato. L’incertezza va superata pur con la consapevolezza che qualcosa dovrà essere non facilmente negoziato per poter arrivare alla pace e sapendo che il plebiscito è un amaro avvertimento ma di per sé non mette in gioco i termini dell’accordo poiché Santos come Cameron sulla Brexit non era obbligato a farlo.
Cosa c’è dietro queste considerazioni che riflettono però il valore del coraggio poiché molto più facile vivere con un problema irrisolvibile che pagare il prezzo della sua soluzione? Per la prima volta in 50 anni la pace in Colombia è stata nelle mani del suo popolo che domenica scorsa ha votato un plebiscito per approvare gli accordi raggiunti tra il governo e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). L’accordo avrebbe avuto una speciale importanza per questo Paese devastato per una guerra che causò 8 milioni di vittime di cui 260 mila morti, decine di migliaia di rifugiati e bruciato ingenti risorse umane ed economiche provocando ostacoli ad uno Stato chiamato a figurare tra i più dinamici della regione. Si è raggiunto l’accordo grazie alla volontà delle parti in conflitto e di due Paesi come Cuba e la Norvegia che ospitò i primi incontri a Oslo nel 2012. Fondamentale è stato l’atteggiamento di Cuba e del Venezuela che erano i referenti politici e ideologici della guerriglia per un armistizio definitivo; gli stessi Stati Uniti erano anche loro a favore del porre termine alle ostilità; decisivo fu il disgelo tra Washington e l’Avana e la stessa spinta di Papa Francesco.
Questo processo estirpa e intende porre termine con due fatti emblematici avvenuti a Cuba: l’assalto alla caserma Moncada, il 26 luglio 1953, che pur fallendo segnò l’inizio della rivoluzione Cubana e la firma degli accordi tra il governo della Colombia e le Farc avvenuto il 23 di giugno del 2016. È storia ricordare che Cuba armò e addestrò militarmente migliaia di latino americani in moltissimi Paesi. L’annuncio all’Avana delle Farc che lasciano le armi, significa la conclusione di un lungo confronto che insanguinò gran parte della regione aiutando a trasformare l’America Latina. Importante dopo la vittoria del no che il capo delle Farc abbia dichiarato che la sua «arma» continua ad essere la «parola». Perché solo ora il presidente Santos ha potuto negoziare con la guerriglia?
Oggi la Colombia ha un budget ben maggiore rispetto al passato per affrontare i temi dell’agenda negoziale, ovvero: la distribuzione di certificati di proprietà delle terre (si tratta di milioni di ettari divenuti in mezzo secolo campi di battaglia abbandonati dai profughi), il problema degli sfollati, la riforma della giustizia e l’abbandono del narcotraffico da parte delle Farc. Lo Stato Colombiano targato 2016 risulta diverso anche agli occhi della guerriglia perché economicamente è molto più florido rispetto al passato e in grado di essere membro di un percorso globale come l’alleanza per il Pacifico con altri Paesi: Messico, Perù, Cile e le tigri delle economie asiatiche.
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