L'Editoriale
Giovedì 31 Agosto 2017
Cittadinanza
Paure da superare
Il sentiero per la riforma della cittadinanza è stretto e insidioso. Vi si misurano la difficoltà e la miseria dell’azione politica, soprattutto in tempi di fluidità di assetti e alleanze, nonché di vicinanza elettorale. La spregiudicatezza comunicativa cavalca le paure senza pudore. Si interpreta la rappresentanza non come il tentativo di farsi carico - nello spazio pubblico del confronto e della mediazione - di bisogni e paure, legittimi e comprensibili, ma come trasposizione caricaturale e immediata dei peggiori istinti, quasi che il rappresentante dovesse esibire la rozzezza con cui evidentemente si raffigura i cittadini.
Eppure sui temi della cittadinanza e dell’immigrazione è attivo un popolo articolato e organizzato, che avanza proposte di riforma ragionata e inclusiva (la campagna «Ero straniero»); accanto a un popolo indistinto e disperso, ma rilevato dai sondaggi, la cui voce produce un sottofondo di insicurezze ma anche, francamente, di rifiuto.
Questo è un primo punto critico: il contrasto tra un popolo articolato attorno a formazioni sociali, capace di proposta perfino più avanzata della mediazione politica; e un popolo-massa, sommatoria di umori e malcontenti individuali spesso inespressi, eppure diffusi. Il perseguito indebolimento degli organismi di mediazione affievolisce la prima voce e accentua la seconda, più facilmente manipolabile e strumentalizzabile.
Un secondo livello di difficoltà è la fitta coltre di nebbia che confonde il dibattito sullo jus soli e cioè sulla riforma delle vie di accesso alla cittadinanza italiana. Si lascia che questo tema sia mischiato, colpevolmente, con l’emergenza degli sbarchi di profughi e rifugiati. Si diffondono idee infondate per cui, se la riforma venisse approvata, tutta questa umanità, spesso disperata, verrebbe ad accedere allo status di cittadino. A confondere è anche il termine usato, jus soli, che può comunicare l’idea ingannevole che ogni individuo nato (o addirittura pervenuto) in Italia acquisisca automaticamente la cittadinanza. A nulla serve far notare che la proposta mira ad un assai più modesto e minimale allargamento della porticina di accesso alla cittadinanza, pensato per farvi entrare non profughi appena pervenuti o individui casualmente nati o transitati in Italia, ma bambini stranieri nati in Italia da almeno un genitore in possesso del permesso di soggiorno permanente o del permesso di soggiorno europeo di lungo periodo; oppure, per il cd. jus culturae, minori nati in Italia o arrivati qui prima di compiere dodici anni, che abbiano frequentato regolarmente la scuola per almeno cinque anni o che abbiano seguito percorsi di istruzione e formazione professionale. Insomma, si mira all’integrazione nella cittadinanza di un’immigrazione di lungo periodo e di fatto già inclusa, personalmente e famigliarmente, nel tessuto sociale attraverso la scuola o il lavoro. L’associazione di questa prudentissima riforma della cittadinanza con l’invasione di profughi su imbarcazioni di fortuna è una resa (se non una responsabilità diretta) della politica di fronte all’irrazionalità sconcertante della rappresentazione dei fatti.
Un ultimo livello di criticità merita una sottolineatura. La cittadinanza determina i confini del popolo che la Costituzione riconosce sovrano. Eppure l’accesso alla cittadinanza è rimesso alla legge e, dunque, resta ostaggio dell’arbitrio del legislatore. È accettabile questo? Non dovrebbe il popolo preesistere allo stesso legislatore? La Costituzione proclama sovrano il popolo; non definisce puntualmente – è vero – i criteri di accesso alla cittadinanza, che sono disciplinati da una legge ordinaria dello Stato. E tuttavia questo non significa che la Costituzione si consegni inerme nelle mani del legislatore.
Nella nostra Costituzione la cittadinanza non è intesa come un recinto chiuso, perimetrato da una discutibile e ormai inafferrabile omogeneità nazionale (vista magari da chi, fino a ieri, vedeva solo l’identità padana), ma è definita dalla partecipazione alla costruzione della società, di cui il lavoro è insieme emblema e vettore. Non si tratta dunque di auspicare un’apertura indiscriminata della cittadinanza, ma di procedere alla doverosa immissione nella piena partecipazione politica di chi, attraverso il lavoro e la scuola, ormai da anni contribuisce a costruire la convivenza. L’alternativa – non democratica – è il progressivo prosciugamento della cerchia chiusa della cittadinanza, tornata a essere privilegio, anziché motore di partecipazione; e, inopinatamente, l’abbandono del cuore della Costituzione – il popolo appunto – all’arbitrio e alla pavidità del legislatore di turno.
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