L'Editoriale
Sabato 21 Ottobre 2017
Chiesa, la riforma
non teme congiure
Nella notte fra il ventitré e il ventiquattro settembre, come si conviene a ogni iniziativa cospiratoria degna del suo romanzo, sessantadue firmatari hanno diramato, per via informatica e in simultanea intercontinentale, una lettera indirizzata a Papa Francesco, in dichiarato spirito di «correzione filiale», per esprimere un serio disagio dottrinale circa le questioni legate alla morale matrimoniale culminate nella promulgazione di Amoris laetitia. Nella lettera si sostiene che il Papa, mediante la sua Esortazione Apostolica e mediante altre parole, atti e omissioni ad essa collegate, abbia sostenuto 7 posizioni eretiche, riguardanti il matrimonio, la vita morale e la recezione dei sacramenti, e abbia causato la diffusione di queste opinioni eretiche nella Chiesa Cattolica.
Tra i firmatari della lettera si trovano monsignor Bernard Fellay, Superiore generale della Fraternità San Pio X, la comunità sacerdotale fondata da monsignor Marcel Lefevbre nell’immediato post Concilio, Ettore Gotti Tedeschi economista e banchiere per qualche tempo presidente dello Ior, assieme a una sequela di accademici di svariati atenei italiani, ma anche vecchie conoscenze del movimentismo cattolico, finite in prevalenza a dirigere le molte testate on-line che oggi organizzano e veicolano una specie di resistenza neodottrinalista e semilefebvriana che sembra suscitare una particolare attrazione fra docenze di alto rango e professioni che contano.
Formalmente indirizzata al Papa, la lettera viene in realtà buttata nello stagno di un ipotetico scontento ecclesiale, con l’evidente obiettivo di catalizzarne le energie nascoste, per inquinare la credibilità del vescovo di Roma e intralciare un processo di riforma che avanza quasi camminando sulle uova. Ma all’iniziativa non si è aggregato alcun membro della gerarchia. Nemmeno i quattro cardinali che avevano tempo fa esposto pubblicamente i loro «dubia». E se qualche autorevole teologo (Bruno Forte, Maurizio Gronchi, Giuseppe Lorizio), invitato a intervenire, ha prontamente provveduto a dequalificare come dilettantesche e incompetenti le tesi e i firmatari della lettera, la maggioranza di essi non si è sentita nemmeno in dovere di esprimersi in merito. Mi viene in mente la scena di un film di Marco Bellocchio sul caso Moro, in cui i brigatisti ascoltano sconcertati in televisione le interviste fatte alla gente dai giornalisti, chiedendosi increduli come sia possibile che il popolo non si sia sollevato unanime a seguito della loro iniziativa rivoluzionaria.
Il gesto tuttavia è tutt’altro che trascurabile. Questa specie di blitz antimodernista a parti invertite, del tutto ignaro del suo evidente anacronismo e del suo ridicolo vocabolario d’antan, apre infatti un ennesimo spiraglio su quelle intercapedini ecclesiastiche che oggi tengono come in ostaggio un desiderio di cambiamento già di per sé stesso quasi fuori tempo massimo, un mondo di mezzo fatto di monsignori d’apparato che frequentano di preferenza gente di livello, faccendieri sempre in orbita attorno a interessi ecclesiastici, laici d’alto bordo che al proprio moderatismo politico congiungono la militanza per un tradizionalismo religioso, affiliati vari alle svariate «logge» attive nella penombra cattolica, insomma una umanità varia ed eventuale nella quale, sia al centro che in periferia, finisce per riconoscersi, in modo del tutto inconsapevole, anche larga parte del cattolicesimo di base, generalmente disadattato nel clima dell’epoca e tendenzialmente a disagio con le novità. Una miscela di sensibilità che infonde in tutto il corpo ecclesiale, anche nelle sue componenti più volenterose, il senso di una prudenza che rasenta la viltà.
Questo mette una seria ipoteca su una riforma della Chiesa, che pure intrapresa con energia profetica da Papa Francesco, aleggia per ora allo stato di suggestione carismatica, di slancio volitivo capace di spalancare le finestre di una grande sollievo popolare, ma che ancora manca di sistematiche scelte strutturali, senza delle quali l’anelito generale al cambiamento di paradigma si trasformerà in un senso di rassegnazione proporzionale all’intensità del suo sogno. Senza toccare coraggiosamente le inerzie del meccanismo istituzionale, le sue relazioni interne, le sue figure di riferimento, le sue pratiche, le sue discipline e il loro stile, anche il più sincero slancio riformatore finisce per trasformarsi in una copertura estetica di inerzie ancora più profonde. Anche questa primavera francescana ha bisogno al più presto di quelle conseguenti e coerenti traduzioni istituzionali cui molti nella Chiesa non mandano a dire di volersi opporre. Un gesto energico per divincolarsi da quella specie di «potere che frena», interno e affliggente, che trovo definito con ragguardevole precisione in alcune parole di Leonardo Sciascia: «Il segreto italiano e cattolico di disperdere il nuovo nel vecchio, di usare ogni nuovo strumento per servire regole antiche e, principalmente, di una conoscenza tutta in negativo, in negatività, della natura umana» (sovente è l’avversario il consigliere più sincero).
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