Cambia il voto
Effetto domino

Il ritorno al proporzionale – visto almeno nella prospettiva della stabilità politica – è seriamente discutibile, così come sarebbe auspicabile completare la legislatura. Deciderà Mattarella, evidentemente, ma il governo Gentiloni, esauriti gli impegni internazionali, appare affaticato e difficilmente può reggere. Lo si è visto dalla rottura dei bersaniani sui voucher e dallo scivolone sulla legittima difesa. Domenica, poi, c’è un’altra tornata di elezioni amministrative in alcune grandi città come Palermo e Genova, ennesima insidia per il Pd, principale azionista dell’esecutivo.

Potrebbe così esserci la campagna elettorale sotto l’ombrellone, fatto stagionale del tutto inedito, nel segno appunto del proporzionale che chiude con l’Italia maggioritaria degli anni ’90. Quella serie storica che ormai non c’è più da un po’ di tempo: centrosinistra e centrodestra sono altra cosa rispetto a questi 25 anni, c’è stata poi la scissione fra i democratici, Berlusconi e la Lega di Salvini non si parlano. Vocazione maggioritaria e cene di Arcore sono in disuso, appaiono fuori tempo, dopo l’irrompere di Grillo, cioè del ciclone che fa la differenza e che costringe alla discontinuità.

Il passaggio è la riforma elettorale e bisogna vedere se l’intesa di massima fra Pd, Forza Italia, grillini, e con la disponibilità della Lega, regge attraverso l’accordo di tutti. Legge che è figlia di un tempo nervoso, reso complicato dopo la sconfitta del referendum costituzionale del 4 dicembre, che ha sparigliato da cima a fondo il campo.

Proporzionale significa che ognuno corre per sé e non ci sarà un vincitore vero e proprio, perché il voto non fabbricherà una maggioranza di governo subito identificabile: la partita si chiude con le alleanze che verranno strette in Parlamento. A quel punto molto dipenderà dalle valutazioni del presidente della Repubblica. Nel proporzionale le coalizioni non si annunciano, si pensano ma non si dicono, poi però le si fanno in base ai numeri ottenuti, e non solo.

Lo snodo politico già da ora è questo: riguarda l’«inevitabilità» o meno di un’ipotetica coalizione Pd-Fi e, nel caso opposto, di un gioco di sponda fra Grillo e Salvini. Questa legge è stata definita «tedesca», per via del proporzionale e dello sbarramento d’ingresso del 5%, in realtà è inserita nella cornice italiana, dove le due aree da gioco sono diventate tre. Proporzionale e maggioritario hanno pregi e difetti (il primo in teoria è più rappresentativo e rassicurante, il secondo più diretto ed efficace), anche se la tendenza generale è un misto fra le due formule come lo era il Mattarellum: i sistemi vanno comunque valutati sul piano del rendimento istituzionale e della coerenza con l’impianto normativo complessivo.

Perplessità e critiche ci stanno, specie quelle di taglio ulivista alla Veltroni e alla Prodi, ma difficilmente trovano la soluzione ad un quadro politico che non esiste più: descrivono più un come eravamo, piuttosto che un come potremmo essere. La legge Mattarella, che pure ha svolto il suo servizio, era stata pensata per l’Italia bipolare di allora, oggi però diventata tripolare e dai pesi sostanzialmente equivalenti (se consideriamo ancora la Lega nel centrodestra).

La riforma costituzionale, che tendeva ad una democrazia «decidente», è stata sonoramente sconfitta. Il ballottaggio, previsto dall’Italicum, è stato bocciato dalla Corte costituzionale: il doppio turno è una ghigliottina per uno dei tre giocatori (vedi la Francia), ma è uno strumento inutilizzabile dopo il «no» della Consulta. Sullo stesso Mattarellum, comunque corretto, non c’era l’accordo. La cassetta degli attrezzi che ci poteva essere è stata resa inservibile. Indietro non si può tornare, perché ad essere respinta per via elettorale e giurisdizionale è stata proprio l’opzione maggioritaria (riforma del Senato e Italicum erano le due facce della stessa medaglia).

Sostenere che l’Italia stia tornando alla Prima Repubblica è un’idea suggestiva per chi la teme o la invoca, ma rappresenta un’analogia tanto superficiale quanto improponibile: un giochino da salotto. Mentre viceversa, nel vissuto reale, siamo ancora nel bel mezzo di quella «infinita transizione» descritta vent’anni fa dallo storico Gabriele De Rosa, di cui la sconfitta del referendum ha rappresentato una cesura netta, disarmando le ipotesi di riformare le istituzioni. Un punto di frattura, e non un incidente di percorso, che si tende a sottovalutare, ma che sta avendo un effetto domino su tutto il sistema politico: costringendo, realisticamente, ad impiegare schemi mentali possibilmente rappresentativi di un’Italia che c’è, non di quella che si vorrebbe.

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