Brexit: scommessa
e rimborso spese

«So che non si sa dove andiamo a finire». Ecco. Finalmente c’è qualcuno che ammette ciò che tutti si affannano a negare. E cioè, che per ora nessuno sa quali saranno gli effetti concreti della Brexit, sia sul Regno Unito sia sull’Unione europea. Non a caso è stato David Davis, ministro inglese per la Brexit, a fare outing. Colui che per conto di Londra dovrebbe prevedere tutto, riconosce che le conseguenze del distacco saranno in concreto valutate in corso d’opera o addirittura a cose fatte.

In altre parole: la Brexit è stata una scommessa, se non proprio un salto nel buio. D’altra parte non era difficile immaginarlo. È questa la prima volta in cui un singolo Paese decide di uscire da un’Unione europea che, meglio non dimenticarlo, è ancora meta ambita per diversi Paesi, dalla Bosnia alla Turchia, dall’Albania alla Bosnia-Erzegovina.

Per di più si tratta di un grande e complesso Paese come il Regno Unito, che fin dal 1 gennaio 1973, cioè dall’ingresso nell’allora Cee, ha sempre avuto con le istituzioni comunitarie un rapporto a dir poco agitato, che già nel 1975 lo portò a tenere un referendum sulla permanenza nella comunità, superandolo con una maggioranza del 62%. E che in virtù di quella agitazione è sempre riuscito a strappare condizioni di maggior favore rispetto alla quasi totalità degli altri Paesi membri.

Come si può prevedere l’esito di un processo che nessuno ha mai affrontato? Tanto più che tutte le stime e le ipotesi vengono fatte ora, quando la Brexit ancora non esiste. Per il momento il Regno Unito gode di tutte le prerogative e i vantaggi di cui ha goduto finora, e continuerà a farlo per almeno altri due anni, quelli concessi dal lungo processo negoziale che porterà alla Brexit realizzata.

E con questo siamo arrivati alla vera parola magica: negoziato. Sarà quello, in realtà, a decidere di che pasta sarà la Brexit, e non a caso Theresa May ha voluto andare a elezioni anticipate per affrontarlo con un solido mandato politico. I toni si sono alzati appena si è cominciato a parlare di quattrini, cioè dei miliardi che Londra dovrebbe versare a Bruxelles per risarcire l’uscita dalla Ue rispetto a una serie di impegni (la sua quota di spese comunitarie come stipendi e pensioni dei dipendenti Ue, progetti a lungo termine e così via) già sottoscritti: 50, 60, forse 100, in ogni caso una somma astronomica. Se i due, Regno Unito e Ue, sono distanti anni luce su una valutazione che dovrebbe essere nero su bianco e valutabile da un ragioniere, come si può credere che sappiano ciò che succederà tra cinque o dieci anni?

Quel balletto di cifre, in realtà, è già parte del negoziato. I dirigenti della Ue fanno la faccia feroce sul «rimborso spese» non solo per intimidire il Regno Unito ma anche per togliere la voglia di andarsene a eventuali altri Paesi che nutrissero una simile pulsione. E nella stessa strategia si inquadra il divieto di intavolare trattative commerciali con Londra imposto ai 27 Paesi Ue rimasti. Il messaggio a Londra è questo: prima paghi, poi parliamo dei tuoi rapporti con la Ue.

La May, ovviamente, ha ben altre idee. Di versare 100 miliardi manco se lo sogna, e sarebbe interessante capire che cosa potrebbe fare la Ue se il governo inglese rispondesse con un semplice e chiaro «no». Molti dicono che il suo ideale di Brexit sia quello in cui il Regno Unito adotta il famoso «modello Norvegia», ma anche di questo si può dubitare.

La Norvegia non è membro della Ue (ipotesi respinta con due referendum, nel 1972 e nel 1994) ma partecipa, come Islanda e Lichtenstein, dell’Area Economica Europea. Il che significa che può commerciare con i Paesi Ue senza sottostare a dazi (ma non in alimentari e bevande) ma deve adottare circa tre quarti della legislazione Ue senza avere alcun diritto di voto nelle sue istituzioni. La Norvegia contribuisce al bilancio Ue. Chi ha fatto i conti sostiene che il Regno Unito, con quel modello, verserebbe il 94% di quanto versa oggi, cioè non sarebbe un grande affare. La Norvegia, infine, controlla in modo autonomo le proprie frontiere ma già oggi il Regno Unito ha una percentuale di immigrati per abitante inferiore a quella norvegese. Insomma: parole, parole, parole. Perché per giudicare la Brexit ci vorrebbe la Brexit. Mettiamoci comodi, abbiamo un paio d’anni per pensarci.

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