Braccio di ferro
per la Brexit

Non è certamente un momento felice per i fautori dell’uscita «dura» della Gran Bretagna dalla Ue. Lo testimoniano le ricorrenti manifestazioni di massa pro-Ue e le perduranti tensioni a Westminster sui termini della Brexit, con la dimissioni di ministri dal governo della signora May. Particolarmente significative quelle di Boris Johnson, segno evidente che tutto il progetto Brexit, da lui fortemente sostenuto, si sia arenato. Come se non bastasse, c’è stata una multa – con il deferimento alla polizia per ulteriori indagini – per «Vote Leave», la principale piattaforma pro-Brexit al referendum del 2016, ritenuta responsabile di violazione delle norme sulla campagna elettorale. La scelta di abbandonare l’Europa è stata alimentata dal vecchio sentimento «coloniale», che ha influenzato il voto delle classi rurali e meno istruite della popolazione. I giovani e gli abitanti delle città hanno votato massicciamente in favore della permanenza in Europa.

Tuttavia, chi in Inghilterra ha esaltato le grandi opportunità della Brexit ha oggi molte ragioni per ricredersi: un costante rallentamento dell’economia; la svalutazione strisciante della sterlina; il calo delle prospettive di sviluppo; la fuga delle grandi imprese e, in prospettiva, di alcune grandi banche. Non bisogna dimenticare, peraltro, che i governi inglesi hanno osteggiato sin dall’inizio la nascita dell’Unione europea.

Solo dinanzi al sempre maggiore processo d’integrazione l’Inghilterra ha cambiato orientamento, aderendo all’Ue nel 1973. Dal suo ingresso, però, ha assunto posizioni spesso contrastanti, ponendo il veto su molte decisioni. Ha stupito, poi, che si sia battuta per l’adesione di altri Paesi alla Comunità, tanto da far pensare che il suo reale intento fosse quello di creare ulteriori problemi all’Ue. Del resto, nel 2001 non ha aderito alla moneta unica, preferendo mantenere la sterlina.

Insomma, l’Inghilterra ha sempre dato l’impressione di vedere nell’Unione europea solo un’opportunità dal punto di vista commerciale. Tale strategia fortemente speculativa è stata confermata anche dopo la Brexit, quando i «duri» del partito conservatore hanno chiesto la scissione da tutti gli accordi europei tranne da quelli relativi al settore degli scambi commerciali. Da qui l’inizio del braccio di ferro con la Commissione europea, per la quale la libertà degli scambi va di pari passo con le altre tre essenziali libertà europee: la libera circolazione dei capitali, dei servizi e, soprattutto, delle persone. Per placare la furia dei conservatori radicali più ostili all’Europa, la Signora May, con una lettera al Parlamento ha assunto «la responsabilità complessiva di preparare e condurre i negoziati».

Punto di riferimento di questi negoziati potrebbe essere il caso della Norvegia che è fuori dall’Unione Europea, ma ha conservato l’accesso allo spazio economico europeo perché rispetta le altre tre libertà; in cambio, paga all’Europa contributi al bilancio comunitario. Per avere accesso allo spazio economico europeo anche l’Inghilterra dovrebbe rispettare le altre libertà essenziali e pagare un contributo al bilancio europeo. È evidente che in questo caso, secondo i Conservatori radicali, verrebbero meno le ragioni stesse della Brexit. D’altro canto, realizzare una «hard Brexit» isolerebbe commercialmente il Regno Unito dalla comunità internazionale, ponendolo in grandi difficoltà economiche per i dazi con l’Ue e con le altre nazioni che seguono gli indirizzi del Wto (World trade organization). Allo stato si è ancora fermi alla «minaccia» della May di non pagare il conto della Brexit senza un accordo commerciale. Sta di fatto che, comunque vadano i negoziati, non potranno essere evitate ripercussioni negative per l’Europa e si aprirà uno scenario ben più pesante sul piano economico e sociale per la Gran Bretagna.

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