Bonus cultura
Occasione perduta

Addio libri gratis cari giovani. Lo Stato non li finanzia più. Se volete leggere, dovrete comprarveli. È polemica in questi giorni per l’annuncio del ministro dei Beni culturali e del Turismo Alberto Bonisoli di tagliare il bonus cultura da 500 euro per i neo-diciottenni: «Vale 200 milioni. Meglio far venire la fame di cultura ai giovani, facendoli rinunciare a un paio di scarpe». Come è noto il bonus, consistente in 500 euro da spendere in prodotti culturali, come libri, dischi, teatro o cinema, musei e mostre d’arte era stato introdotto con il decreto 187 del 2016, rivolto agli oltre 500 mila giovani che compiono diciotto anni nel 2018 e al mezzo milione di ragazzi che diverranno maggiorenni il prossimo anno.

La misura era stata bocciata dal punto di vista formale dal Consiglio di Stato. Mancherebbe una legge più solida di un decreto, legge che i successori del precedente governo si guardano bene dal proporre, anzi. Il provvedimento è stato difeso, oltre che ovviamente dal Pd, anche da Confindustria cultura, ricordando che 800 mila giovani hanno speso 260 milioni di euro in prodotti culturali e in un Paese in cui la cultura è una Cenerentola, non c’è che da gioire. Il governo non tornerà indietro sulla decisione. Dobbiamo dunque recitare un «de profundis» per questo bonus inventato dal premier Matteo Renzi. Ma la domanda è: dobbiamo anche rimpiangerlo? In primo luogo va detto per onestà intellettuale che il discorso di Bonisoli del paio di scarpe non tiene. È lecito pensare che saranno davvero pochi i diciottenni che rinunceranno al vestiario per investire in libri, teatro, cinema e quant’altro. Sia serio Bionisoli: chi mai sacrificherà a 18 anni un paio di Nike per «Il nome della rosa»?

Il bonus cultura, va ricordato, ha un precedente che risale a 2.400 anni fa: il theorikon, il fondo statale della polis di Atene inventato da Pericle, destinato a finanziare l’ingresso per tutti i cittadini a teatro e alle altre iniziative culturali. Già nella Grecia del quinto secolo avanti Cristo c’era la consapevolezza che la cultura equivale a una maggiore crescita, integrazione e consapevolezza sociale. I «cittadini» (parola molto amata dal partito di Bonisoli) si formano così, si legano così alla comunità di riferimento: con il collante della cultura. Il theorikon peraltro serviva a sortire la nascita di grandi capolavori, come le opere di Eschilo e Ariostofane. Tutto questo non per paragonare Renzi a Pericle, ma solo per dire che l’iniziativa era buona e aveva nobili precedenti. Una tessera annonaria della cultura (come in tempo di guerra, ma il nostro dal punto di vista culturale è tempo di guerra, basta leggere i dati Istat sulla lettura dei libri), a disposizione dei ragazzi italiani per l’acquisto di libri, biglietti del cinema e del teatro, mostre d’arte, siti archeologici, eventi e manifestazioni culturali aveva la sua ragion d’essere.

C’è chi faceva e continua a fare obiezioni di equità sociale: il bonus era uguale per tutti, ricchi e poveri. In realtà nel campo culturale la disuguaglianza non sta nel reddito, ma nelle mode e nelle abitudini familiari. La ricchezza culturale non è proporzionale ai soldi. In quante famiglie borghesi, in questi tempi sciagurati, la cultura è considerata una perdita di tempo? «Cerca di farti una posizione e soprattutto di leggere un numero adeguato di grandi romanzi nella tua vita, non ce la farai a leggerli tutti», consiglia lo zio al protagonista di un romanzo di Thomas Mann. Il padre di Montalbano Andrea Camilleri in un’intervista ci raccontò che da ragazzo viaggiava da Porto Empedocle a Palermo per comprarsi con la paghetta dei genitori un nuovo romanzo alla libreria Flaccovio (che avrebbe divorato nel viaggio di ritorno in treno). Avesse avuto il bonus, avrebbe fatto il pendolare...

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