Bergamo e la fatica
di tornare a crescere

Non è né carne né pesce la fotografia congiunturale diffusa ieri sullo stato di salute dell’industria e del sistema economico bergamasco in generale nel terzo trimestre. Non è drammatica, perché un timido segno più nell’andamento della produzione industriale rispetto all’anno scorso si vede.

Ma, senza pretendere che sia brillante, non è nemmeno positiva: la risalita avviata con fatica tra la fine del 2013 e la prima parte di quest’anno, infatti, segna se non proprio una battuta d’arresto, quantomeno un rallentamento, anche piuttosto significativo, dal momento che l’incremento della produzione industriale si è più che dimezzato rispetto ai primi due trimestri.

Siamo impantanati in una stagnazione che non fa bene al manifatturiero e non fa bene al lavoro. L’andamento degli addetti nell’industria dice tutto: tolte rare e contenute eccezioni, siamo all’ottavo anno di calo sistematico. Significa migliaia di posti andati in fumo. E sta andando in frantumi il paradigma tracciato anni fa secondo cui il terziario avrebbe fatto da cuscinetto assorbendo la manodopera in uscita dalle fabbriche. Anche sul versante commercio e servizi il lavoro segna il passo, così come l’andamento dei volumi d’affari. Per non parlare delle costruzioni, ampiamente in negativo, e dell’artigianato.

Ce n’è abbastanza non tanto per essere pessimisti, non servirebbe a nulla, ma per darsi una mossa: investire per creare occupazione deve essere l’ossessione di chi ha a cuore le sorti dell’economia e del lavoro. Nel piccolo, c’è un tema di attrazione di investimenti sul territorio che ha avuto uno slancio con l’incontro d’inizio settembre fra il sindaco Giorgio Gori e le parti sociali. Due mesi sono pochi, è vero, per vedere dei risultati, ma vale la pena ricordare la questione perché non cada nel dimenticatoio e in tempi brevi si arrivi a passi concreti nella direzione giusta.

Nel grande, occorre tornare a pensare al futuro di questo Paese a medio-lungo termine. Uscire dalla contrapposizione perenne e quotidiana a tutti i livelli, per remare verso un orizzonte comune, senza rinunciare ciascuno ai propri ruoli. Viene in mente cosa accadde in Germania ancora prima della crisi, quando il potente sindacato dei metalmeccanici Ig Metall raggiunse accordi che fecero scuola in grandi gruppi, a partire da colossi dell’auto come Opel e Volskwagen, per superare il momento di difficoltà: da una parte investimenti e blocco dell’occupazione e dall’altra concessioni su orario di lavoro e questioni salariali, con il patto di tornare alle condizioni di partenza in pochi anni. E anche alle rivendicazioni sostanziose che hanno sempre segnato l’azione dell’Ig Metall.

Se la Germania si è rimessa in piedi ed è tornata a correre allora, anche se oggi rischia di segnare di nuovo il passo, è stato anche grazie a queste intese. Certo, qui a casa nostra non si tratta più ormai di singole fabbriche. C’è tutto un sistema da rimettere in marcia. E in questo caso non è né scontato né tantomeno garantito il ritorno alle condizioni di partenza: c’è un impoverimento generale e, soprattutto, delle generazioni future.

Ma scontrarsi un giorno sì e l’altro pure, da ogni parte e ad ogni livello, non porterà lontano. Rischia solo di fare un favore a quella che all’ultima assemblea di Confindustria Bergamo è stata definita la «palude» di chi confida sempre in «veti incrociati e ritardi» perché niente si muova. Non possiamo permettercelo. Il pantano in cui si trascina l’economia (e i dati del sistema industriale bergamasco, più forte del Baden-Wurttemberg, sono più che emblematici) ci impone di alzare la testa. Niente è più come prima: anche un patto per il futuro del Paese deve avere un sussulto di novità e lo sguardo lungo.

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