Bergamo ce la farà
se sceglie di rischiare

Bergamo potrà uscire dalla Grande Crisi contenendo gli effetti più dolorosi, già oggi evidenti, ad una condizione: rimanendo se stessa. Gli anticorpi e i fondamentali ci sono. Ci si può rivolgere alla storia per trarne ispirazione e incoraggiamento.

Per ridefinirsi e ricominciare secondo la formula che per la nostra terra s’è rivelata vincente: speranza e gloria. Guardando indietro, l’uomo bergamasco, nell’economia e nella società, ha scritto una vicenda di successo perché s’è rimboccato le maniche: gravato dall’onere di una natura matrigna che impediva l’autosufficienza alimentare, ha vinto fame e povertà reinventandosi.

La manifattura che ha fatto da sfondo all’entrata nel benessere è stata l’alternativa razionale alle impari opportunità offerte da un territorio sterile. Che poi il primo balzo in avanti sia stato pilotato dai montanari delle nostre valli, che vendevano in tutta Europa i loro panni di lana, dice molto di una terra speciale e particolare.

Ma dice anche che il meglio è stato dato quando gli «spiriti animali» del capitalismo hanno scelto il rischio e non il latifondo parassitario. L’innovazione e non il conservatorismo. Sembra di leggere la cronaca del nostro tempo: il profitto, cioè produrre per vendere, contro la rendita. Rovesci spettacolari, non c’è dubbio, e correzioni in corso d’opera vanno messi nel conto, ma nella sua vicenda secolare Bergamo ha acquisito quel che Carlo Cattaneo chiamava «cultura»: la volontà che anima la capacità di sapere, quel conoscere come fare. Etica e orgoglio del lavoro: non solo dedizione al sacrificio, ma l’ingegno di esprimere competenze raffinate.

Oggi l’edilizia bergamasca è collassata, eppure con calce e malta i nostri muratori è come se avessero scritto elzeviri da terza pagina letti e ammirati dai patrizi del ‘600 e ‘700. Il filo rosso, e sembra quasi strano ricordarlo in una terra che in anni più recenti ha patito un tasso di scolarizzazione sotto la media lombarda e nazionale, è stato il felice connubio fra istruzione tecnica e fabbrica: l’Esperia è l’esempio storico blasonato e oggi tocca all’Università che ha numeri d’eccellenza, seguendo lo schema tedesco di stretta relazione fra scuola e industria. Modello tedesco che configura la stessa struttura dell’economia bergamasca, fatta di convivenza virtuosa e di reciproca convenienza fra grandi imprese in grado di elaborare soluzioni d’avanguardia e il grappolo di piccole e medie realtà produttive.

Un benessere umanizzato dalla coesione sociale che rimane la cifra distintiva della Bergamasca del Duemila, anche perché generazioni di emigranti hanno patito sulla loro pelle cosa significa doverne disporre solo in modica quantità. Ecco che dal cilindro talentuoso dell’uomo bergamasco è uscito il capitale sociale come tratto culturale, moltiplicatore di fenomeni sociali che hanno consentito di superare i punti critici dell’assetto della società bergamasca e che continuiamo a vedere nella vitalità di quei corpi intermedi che il premier Matteo Renzi, nell’anno di grazia 2014, mette disinvoltamente alla berlina.

Eppure, a ben vedere, è proprio il capitale sociale il vero tesoretto del nostro territorio, il pendant di quel laboratorio comunitario interclassista che Bergamo, nei suoi anni migliori, è stata capace di produrre. E questa impronta è necessaria soprattutto con il perdurare della recessione che ha indotto una rinnovata attenzione alla dimensione collettiva del bene comune. Bergamo ce la può fare se si rivede allo specchio per rimettersi in gioco, sapendo che ha sperimentato il futuro quando ha scelto il rischio e non la rendita di posizione.

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