Art. 18 e le sfide
del lavoro

Articolo 18, andata e (forse) ritorno. Questo «rieccolo!» è in realtà improbabile, ma resta stupefacente anche il suo uso strumentale: uno scalpo da esibire come prezzo di una ipotetica riunificazione elettorale di ex amici e compagni, lasciatisi con rancore. Un fatto è certo, e cioè che questo articolo del fu Statuto dei lavoratori (Brodolini, 1970) continua a svolgere la sua funzione simbolica, l’unica davvero esercitata in quasi mezzo secolo di vita. Perché non ha poi cambiato più di tanto il mondo del lavoro. Né quando era in vigore, e ben pochi erano i casi di ricorso a questo strumento, né ora che è stato abrogato e non risulta che la sua sparizione abbia prodotto flagelli sociali.

Un simbolo, un totem, questo sì. Serviva a chiudere un passato di ombre nelle relazioni sindacali, quello dei licenziamenti delle «teste calde» (semplicemente iscritti al Pci o alla Fiom), ma anche quello delle repubbliche autonome nascoste nelle mega fabbriche, dove si poteva fare di tutto, dal gestire mercatini al coltivare cellule delle future Br.

L’esistenza dell’articolo 18 ha comunque aiutato un sistema ad autoregolarsi, perché alla fine si è riusciti a distinguere tra discriminazioni e situazioni di mercato, oggi risolte in modo più equilibrato, migliorabile ma senza traumi. Le tutele crescenti sono un progresso.

Diverso è il contrasto sul Jobs Act, che è un provvedimento ben più ambizioso, arrivato subito dopo quello di Obama, rubandogli anche il nome, ma tanti anni dopo le simili misure del socialista tedesco Schröder che strapparono la Germania dalla recessione, grazie a un ministro di estrazione «padronale» che era più un Romiti che un Marchionne. Con Renzi, comunque, più lesto dei francesi, che solo ora, con Macron, hanno avviato il loro Jobs Act.

Questa legge è stata comunque una svolta, in sintonia se mai ancora insufficiente con una domanda che cambia a gran velocità: il 45% dei lavori di oggi che non ci saranno più domani, la sfida della robotizzazione, l’inadeguatezza del nostro sistema scolastico, il numero scarso di laureati, che sono soprattutto meno preparati e competenti (26° posto su 29 della classifica Ocse). Il problema vero del lavoro essendo proprio la difficoltà di reperire giovani talenti, altro che articolo 18, rudere novecentesco.

Nel settore dell’automazione, che segna crescite ed export impressionanti, l’industria delle macchine del packaging ha denunciato l’altro ieri la difficoltà di agganciare la sfida dell’industria 4.0, la più importante novità dei governi Renzi e Gentiloni. Non ci sono tecnici ed ingegneri con le competenze meccaniche, informatiche, elettroniche richieste, e gli imprenditori ci mettono 200 giorni per assumere l’ingegnere giusto, di cui hanno bisogno in 75. E quanto le rigidità siano anacronistiche lo dimostra il fatto che il contratto, dal 7° livello in su, lascia liberi gli orari di lavoro, con il solo vincolo delle 40 ore settimanali. Lo vogliono i giovani, respingendo orari fissi e gerarchie, ma non piace ai sindacati.

Tutto questo, in un’ottica antica, verrebbe chiamato precarietà, ma il lavoro flessibile, senza compromettere i diritti, è il futuro. L’esperienza Jobs Act ha dimostrato che contano gli incentivi, purché non drogati, a spese dello Stato, ma il lavoro non si crea per decreto. Nessuno assume o licenzia perché c’è, o non c’è, l’articolo 18. Assume se c’è mercato, e se c’è una necessità.

Ha fatto bene il rettore dell’Università di Bergamo, Remo Morzenti Pellegrini, a far salire sul palco dell’Aula magna un robot, perché anche questo è un simbolo non del passato, ma del futuro. Per ora, non è bravo quanto un essere umano, ma in tante cose può sostituirlo.

Insomma, è ancora lui, il robottino, ad essere un passo indietro, un po’ come certe leggi degli anni 70. Ma crescerà, e potrà portar via posti di lavoro anziché crearne, se le nostre regole si ispireranno solo alla nostalgia.

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