L'Editoriale
Giovedì 02 Marzo 2017
Anche la morte
fa parte della vita
Le recenti vicende di Fabiano Antoniani e di Giovanni Trez, deceduti nella clinica Dignitas di Zurigo, hanno mobilitato l’opinione pubblica, sollevando un dibattito che ha conquistato la prima pagina di giornali e telegiornali. Le due storie, profondamente umane, hanno risvegliato l’attenzione su le Dichiarazioni anticipate di trattamento, il Ddl che il 13 marzo approderà alla Camera. I drammi umani e personali si intrecciano dunque con complesse questioni giuridiche. A loro volta, queste sollevano interrogativi etici decisivi, sui quali nella nostra società manca non solo una condivisione, ma spesso anche un dibattito serio.
Evitando di lasciarci travolgere dall’onda emotiva, occorre cercare di dare ordine ai pensieri. A questo scopo, occorre distinguere tra sedazione profonda, accanimento terapeutico, eutanasia e suicidio assistito.
La sedazione profonda, o palliativa, regolata in Italia da una legge del 2010, riguarda i pazienti per i quali non è più possibile alcun tipo di terapia (proporzionata): constatata l’irreversibilità del processo del morire, essa consiste nella somministrazione di analgesici che addormentano il paziente, sospendendo ogni tipo di altra «terapia». La morte sopravviene non per una dose letale di analgesici ma, in genere, per insufficienza respiratoria. Questa pratica è altra cosa dal suicidio assistito e dall’eutanasia, che sono atti tecnicamente ben distinti. Essa si riconduce al rifiuto dell’accanimento terapeutico.
Quest’ultimo si fonda su un giudizio di proporzionalità delle «terapie» mediche. Ci sono casi infatti in cui certe cure, tecnicamente possibili, non sono più da considerare una forma della cura, che è il senso della medicina. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è eticamente buono. Esiste un limite a certe cure. Non ammetterlo significa cadere nella pretesa di rimandare senza fine l’evento della morte, senza riconoscere che essa è un momento costitutivo della vita. Il giudizio di proporzionalità comporta una valutazione dei danni e dei benefici che ogni cura arreca. È parere comune che questo giudizio spetti in ultima analisi al paziente stesso, anche attraverso le Dichiarazioni anticipate di trattamento, qualora non sia più cosciente. Egli però non può decidere da solo, perché non esiste da solo. La sua autonomia non è assoluta, ma si pone sempre in un contesto di relazioni, con i familiari, il medico e l’équipe curante, gli amici, i volontari.
Il rifiuto dell’accanimento va poi distinto dall’eutanasia, la cui forma più nota è quella volontaria: in essa il paziente stesso chiede al medico di causargli la morte, per porre termine alle sue sofferenze. Altra cosa ancora è il suicidio assistito, nel quale il medico non pratica lui l’eutanasia, ma pone il paziente nella condizione di porre termine alla sua vita. Questo è il caso di dj Fabo e di Giovanni Trez. La difficoltà maggiore, in tali distinzioni, è di riferire le differenze alle situazioni concrete. Spesso infatti non si tratta di scegliere tra bianco e nero, ma tra grigio e grigio. Per esempio, ciò che alcuni considerano un rifiuto di cure sproporzionate, anche nelle cosiddette terapie di sostegno vitale come l’idratazione e l’alimentazione artificiale, altri lo considerano eutanasia.
La complessità delle situazioni ci fa intuire quanto sia difficile scrivere una legge che possa essere non solo condivisa, ma anche interpretata in modo univoco. È un vero impegno di civiltà. La questione di fondo, in questi dibattiti, è il rischio di dimenticare ancor più l’esperienza della morte, con l’enigma che la contraddistingue: essa è un evento che non è in nostro potere e insieme ci sollecita a una decisione nella quale ne va del senso intero e definitivo della vita. Perciò il problema non è «se» morire, ma «come» morire e «come» accompagnare l’altro alla morte, sostenendolo in questo momento difficile. Il vero compito, per credenti e non credenti, è come noi decidiamo di noi stessi, dinanzi a ciò che può apparire un destino tragico o una soglia oltre la quale continuare a sperare. Per il credente, la morte non perde il carattere angoscioso, ma diventa l’occasione di affidarsi a quel Dio che, nella Pasqua di Gesù, gli ha aperto una speranza eterna, «speranza contro ogni speranza» (Rom 4,18), perché egli non ne è l’origine.
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