Amico ungherese
L’Europa minima

Il premier ungherese Orban, che ieri ha incontrato Salvini alla prefettura di Milano, è un capopopolo discusso, ma non da sottovalutare. Il faccia a faccia, in prospettiva, potrà risultare più sofisticato di quanto non appaia. L’uomo di Budapest, il teorico della «democrazia illiberale» costata al suo Paese la messa sotto osservazione dell’Ue per violazioni dello Stato di diritto, è un leader navigato e scaltro. L’economia ungherese va bene e non solo per i Fondi europei. Il sistema Orban, cioè l’autoritarismo soft con restrizioni ai media e alla magistratura, è prassi da tempo in Polonia e sta contagiando Repubblica Ceca e Slovacchia.

Del gruppo, almeno quanto a stretta sulle migrazioni, fa parte pure l’Austria. L’ex liberale e filo occidentale fattosi amico di Putin e sovranista, sulla scena da 30 anni e alla guida di un Paese senza opposizioni, si candida di fatto alla guida del fronte populista in alternativa allo storico blocco franco-tedesco. Musica per le orecchie di Salvini, in vista delle prossime elezioni europee che potrebbero segnare un prima e un dopo. La questione dei migranti, all’indomani della sconcertante vicenda «Diciotti» che ha chiuso la campagna estiva del ministro dell’Interno, è solo parte di un pacchetto condiviso. E va al di là della contraddizione che tormenta un’Europa indifendibile: il contrasto fra chi, come l’Italia, chiede sostegno e ripartizione delle quote di profughi e chi, come Ungheria e soci, che non ne vogliono sapere.

Protetti dal consenso popolare e dall’aver trasformato il populismo da esperienza marginale a senso comune, l’italiano e l’ungherese hanno in comproprietà l’interpretazione della sovranità popolare in termini assoluti, l’idea di un’Europa minima e dei confini non per gestire i flussi migratori, bensì per azzerarli. Che l’incontro di Milano sia stato derubricato dai grillini ad appuntamento politico e non istituzionale, sollevando così il governo da qualsiasi vicinanza, si capisce. I 5 Stelle sono spaesati e divisi, vincolati ad un elettorato più esigente rispetto a quello compatto della Lega: Di Maio deve usare un doppio registro, sostenere sì Salvini ma fino ad un certo punto, perché il movimento non può rompere e tuttavia deve ritagliarsi spazi di autonomia. Del resto la deriva alla Orban non fa parte del contratto di governo, per quanto il silenzio del premier produca più contraddizioni che sintesi, mentre l’ineccepibile ministro degli Esteri, Moavero, si muove su coordinate corrette. Tutto questo non toglie che l’alleanza politica tra Salvini e Orban, se vogliamo chiamarla così, abbia un senso. Il confronto fra due concezioni di democrazia, fra vecchia Europa e quella arrembante dell’Est, dice che il campo da gioco è cambiato, nel momento in cui gli argini europeisti sono affidati a due leader deboli: Merkel e Macron, infatti, sono in seria difficoltà sul fronte interno e lo «spirito del tempo» è per loro sfavorevole. La sinistra di governo, con l’eccezione del Portogallo, è ovunque ai minimi termini.

È il momento da cogliere per dare la spallata al sistema, fra popolari moderati (centrodestra) e socialisti, che regge i fondamentali della Ue. Con le prossime Europee si cambiano anche i vertici delle istituzioni di Bruxelles, dove l’Italia ha il presidente dell’Europarlamento e la rappresentante per gli Affari esteri, e poi toccherà alla Bce di Draghi. Il partito di Orban, a differenza di quello polacco, fa parte della famiglia dei popolari (Ppe), la formazione della Merkel, di Berlusconi, del premier austriaco e dei post franchisti spagnoli. Un ombrello che ha consentito al leader ungherese una certa benevolenza sulle sue trasgressioni democratiche: una presenza, per i responsabili del Ppe, più necessaria che imbarazzante. Difficile pensare che il capo sovranista abbia interesse a lasciare la confortevole dimora del Ppe, per quanto il fronte populista possa fare il pieno di voti. Da qui anche l’ipotesi, per ora solo sussurrata, che Orban abbia i numeri sufficienti per poter allargare il perimetro dei popolari aggregando al suo interno gruppi euroscettici, Lega compresa. In questo modo la costola del sovranismo resterebbe all’interno della legittimazione europeista, erodendone i contenuti e condizionandone le priorità. I vertici Ue, ormai a fine mandato, non hanno la forza e il consenso per alzare troppo la voce e in fondo cercare un accomodamento con il governo italiano può servire alla stessa Bruxelles per limitare i danni che si preannunciano e tamponare l’effetto domino. Questo Salvini lo ha capito, quando sembra intento, senza dichiararlo, a provocare lo scontro più che a risolvere i problemi. Verificato che l’uscita dall’euro è troppo costosa, si aggrediscono altri temi sensibili e si cercano alleanze fuori schema per portare l’Italia all’esterno della sua tradizione geopolitica e prepararsi alla battaglia decisiva: meno Europa e più Stati. L’amico ungherese è il compagno di strada ideale, salvo chiedersi dove siano finiti l’interesse nazionale e la solidarietà europea.

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